IL NUOVO REGISTRO PUBBLICO DELLE OPPOSIZIONI

3/08/2022

Il Registro pubblico delle opposizioni (“RPO” o “Registro”) è uno strumento che mira a rafforzare la posizione dei consumatori contro le pratiche commerciali aggressive degli operatori che svolgono attività di telemarketing. A partire dal 27 luglio 2022 è entrato in vigore il regolamento per il nuovo RPO che istituisce alcune importanti tutele nell’interesse degli utenti e obblighi nei confronti degli operatori.

 

Il RPO è una misura di contrasto al c.d. telemarketing aggressivo ed è un servizio pubblico messo a disposizione degli utenti per esprimere il proprio rifiuto a ricevere materiale cartaceo pubblicitario e telefonate promozionali.
Attraverso l’iscrizione al Registro, istituito con il DPR n. 178 del 2010, il consumatore esprime infatti il proprio dissenso alla ricezione di telefonate a fini commerciali o promozionali. Il servizio, attivo dal 2011 e del quale è competente il Ministero dello Sviluppo economico (“MISE”), è stato in seguito aggiornato con il DPR n. 149 del 2019 che ha ampliato l’ambito di applicazione del RPO anche alle comunicazioni pubblicitarie cartacee oltre a quelle telefoniche. Tramite contratto di servizio, il MISE ha affidato alla Fondazione Ugo Bordoni la realizzazione, la gestione e la manutenzione del servizio.
Il 21 gennaio 2022 il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma che potenzia il Registro pubblico delle opposizioni, introducendo numerose novità sia dal punto di vista delle imprese, sia dal punto di vista dei contraenti.
Prima di tutto, è bene sottolineare che l’ambito di applicazione delle disposizioni in questione è stato allargato anche ad altre forme di marketing, non solo nei confronti delle comunicazioni commerciali effettuate tramite l’attività dei call center. Come previsto dalla legge n. 5/2018, infatti, rientra nell’ambito di applicazione il trattamento per fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale di tutte le numerazioni nazionali fisse e mobili mediante l’impiego del telefono, che siano o meno riportate in elenchi di contraenti, e degli indirizzi postali riportati nei medesimi elenchi.
Dal punto di vista del consumatore, l’iscrizione al Registro consente poi di bloccare non solo le telefonate tramite operatore ma anche le chiamate automatizzate, e cioè effettuate tramite software di composizione automatici, sempre più diffuse tra gli operatori e fino ad oggi sfuggite alla regolamentazione.
Inoltre, i consumatori possono decidere di inserire nel Registro anche le numerazioni di telefono mobile, così da impedire la ricezione di chiamate promozionali anche sui propri cellulari. Tale trattamento, infatti, era in precedenza riservato solamente alle numerazioni telefoniche fisse.
Un’altra novità riguarda la revoca dei consensi precedenti. I consumatori hanno la possibilità di iscrivere nel nuovo RPO le numerazioni telefoniche verso le quali non desiderano ricevere comunicazioni promozionali: ciò comporta l’annullamento di tutti i consensi prestati in precedenza.
Verranno inoltre iscritti automaticamente tutti i numeri che non sono presenti nell’elenco telefonico pubblico.
Dal punto di vista delle imprese che si avvalgono di attività del c.d. marketing diretto, gli operatori sono obbligati a consultare il Registro con scadenza mensile per eliminare dalle iniziative di telemarketing le nuove numerazioni iscritte. Gli operatori che contatteranno una numerazione a scopi promozionali, sebbene questa sia stata inserita dal consumatore all’interno del RPO, incorreranno nella violazione del diritto di opposizione e dovranno rispondere delle sanzioni amministrative applicabili sensi dell’art. 83 del Regolamento generale sulla protezione dei dati (“GDPR”). Queste possono arrivare fino a 20 milioni di euro oppure fino al 4% del fatturato mondiale totale annuo, se superiore.
In conclusione, l’iscrizione al RPO permette di evitare di ricevere comunicazioni commerciali indesiderate provenienti da qualsiasi azienda. Al contrario, qualora il consumatore abbia intenzione di ricevere tale tipologia di comunicazioni da uno specifico operatore, dovrà esprimere il proprio consenso direttamente a quella determinata società. Quest’ultima potrà dunque includere nelle proprie campagne promozionali le numerazioni di quel determinato utente, sempre facendo salve le regole in tema di trattamento di dati personali degli utenti, i quali dovranno essere trattati in linea con il GDPR, il Codice in materia di protezione dei dati personali, le linee guida ed i provvedimenti vincolanti del Garante per la protezione dei dati personali.

Alfredo Bergolo


LA SOTTILE DIFFERENZA TRA MARCHIO HOMAGE E SFRUTTAMENTO ILLECITO: IL TRIBUNALE DELL’UNIONE EUROPEA SPECIFICA I LIMITI DELL CONCETTO DI MALAFEDE

14/07/2022

Con decisione del 6 luglio 2022 (T 250/21), il Tribunale ha annullato la seconda decisione della Commissione di ricorso dell’EUIPO del 10 marzo 2021, affermando che il semplice fatto che il titolare di un marchio abbia adottato un segno precedentemente noto ma attualmente in disuso come marchio di omaggio non è sufficiente a configurare uno stato d’animo disonesto e quindi la malafede.

 

Il 6 maggio 2013, il titolare ha depositato una domanda di registrazione del marchio dell’Unione Europea per il segno


per capi di abbigliamento (classe 25) e per alcuni altri prodotti, quali coperture per letti (classe 24) e borse in pelle e da viaggio (classe 18), per citare alcuni esempi. Il marchio è stato registrato il 31 ottobre 2014.
Negli anni ‘30 “NEHERA” era un marchio molto noto in Cecoslovacchia, utilizzato da un’azienda fondata dal signor Jan Nehera. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il marchio non è stato più utilizzato a seguito della nazionalizzazione e del rebranding dell’azienda.
Il 17 giugno 2019, i nipoti del fondatore, la sig.ra Isabel Nehera, il sig. Jean-Henri Nehera e la sig.ra Natacha Sehnal, hanno depositato una domanda di nullità del marchio in quanto esso sarebbe stato depositato in malafede. Con decisione del 22 aprile 2020, la Divisione di Annullamento dell’EUIPO ha respinto la domanda per mancanza di prove circa la malafede dell’attuale titolare del marchio. Detta decisione è stata impugnata e la seconda Commissione di ricorso dell’EUIPO ha accolto il ricorso presentato dai nipoti del sig. Nehera, dichiarando la nullità del marchio contestato, ritenendo provata la notorietà del segno in Cecoslovacchia negli anni Trenta. Inoltre, per la Commissione il titolare sarebbe stato a conoscenza dell’esistenza e della celebrità sia del sig. Jan Nehera sia del precedente marchio cecoslovacco, che conservava nella memoria del pubblico una certa notorietà. La derivante associazione tra il titolare del marchio e l’ex marchio cecoslovacco costituirebbe un agganciamento scorretto ed uno sfruttamento della notorietà del sig. Jan Nehera e dell’anteriore marchio cecoslovacco.
Anche la decisione resa dalla Commissione è stata oggetto di gravame da parte del titolare del marchio in quanto riteneva non sufficientemente provata la notorietà residua del segno alla data di deposito nel 2013.
Con la decisione in commento, il Tribunale ha confermato l’orientamento consolidato secondo cui il concetto di malafede presuppone la presenza di uno stato d’animo o di un’intenzione disonesta, sottolineando che è considerata malafede l’intenzione di pregiudicare, in modo non conforme alle pratiche leali, gli interessi di terzi, o l’intenzione di ottenere, senza nemmeno rivolgersi a un terzo specifico, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli che rientrano nelle funzioni di un marchio, ed in particolare la funzione essenziale di indicare l’origine del marchio. Tra i fattori esemplificativi che possono essere presi in considerazione vi sono, in primo luogo, il fatto che il richiedente sappia (o debba sapere) che un terzo utilizza un segno simile per un prodotto simile, che può essere confuso con il segno per il quale si chiede la registrazione; in secondo luogo, l’intenzione del richiedente di impedire al terzo di continuare a utilizzare tale segno e, in terzo luogo, il grado di protezione giuridica di cui godono il segno del terzo ed il segno per il quale si chiede la registrazione. Altri fattori rilevanti per una valutazione complessiva possono essere l’origine del segno in questione ed il suo uso, a partire dalla sua creazione, la logica commerciale che ha motivato il deposito della domanda di registrazione e la cronologia degli eventi che hanno portato a tale deposito. Per quanto riguarda il grado di tutela giuridica del segno anteriore, la Corte ha analizzato se, in assenza di valida registrazione e di un attuale uso, fosse possibile dimostrare una “certa notorietà sopravvissuta”, un “valore storico” o la percezione del fondatore del segno come una “celebrità”.
Nel caso di specie, il Tribunale ha escluso la malafede, in quanto nessuno dei suddetti aspetti è stato sufficientemente provato. Inoltre, ha osservato che il richiedente ha dedicato notevoli sforzi economici per far rivivere il marchio dimenticato.
La decisione, pur essendo in linea con la precedente giurisprudenza formatasi in relazione ai tentativi di far rivivere i marchi altrui caduti in obblio, aggiunge almeno due aspetti interessanti:
In primo luogo, per l’analisi della malafede, la questione dell’ottenimento di un vantaggio indebito è di fondamentale importanza: quando il richiedente la registrazione cerca di cavalcare la scia di un segno o di un nome precedentemente rinomato per beneficiare del suo potere di attrazione, della sua reputazione e del suo prestigio e, senza alcun compenso economico e senza dover compiere alcuno sforzo, sfrutti lo sforzo commerciale compiuto dal titolare o dall’utilizzatore quel “vantaggio indebito” appare abbastanza ovvio. In secondo luogo, il ragionamento del Tribunale sembra implicare che una “certa notorietà sopravvissuta”, un “valore storico” o persino la qualifica del fondatore di un segno quale “celebrità” – se sufficientemente provata – potrebbero essere considerati indizi idonei a dimostrare uno stato d’animo disonesto, anche nel caso in cui il segno anteriore non benefici più di alcuna protezione né come marchio registrato né come marchio di fatto.

Avv. Tankred Thiem


LA RESPONSABILITÀ DEI GESTORI DELLE PIATTAFORME E-COMMERCE – LE CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE SUL CASO LOUBOUTIN – AMAZON

16/06/2022

Lo scorso 2 giugno 2022 l’Avvocato Generale Szpunar della Corte di Giustizia UE ha espresso le proprie conclusioni riguardo le cause riunite C-148/ 21 e C-184/21, relative al caso Louboutin/Amazon, esponendo le motivazioni secondo cui il gestore di una piattaforma e-commerce non debba essere ritenuto responsabile per le violazioni dei diritti dei titolari di marchi, compiute sulla propria piattaforma.

 

Entrambe le controversie sorgevano nel 2019, quando lo stilista francese Christian Louboutin invocava, nei confronti del colosso dell’e-commerce Amazon, una lesione dei propri diritti esclusivi vantati sul marchio n. 0874489 registrato nel Benelux, e sul marchio n. 8845539 dell’Unione europea. L’oggetto dei diritti di privativa riguarda la “semelle rouge”, ovvero quel particolare punto di rosso (N. Pantone 18-1663TP) applicato alla suola di calzature di lusso, che dai primi anni ‘90 contraddistingue e rende note in tutto il mondo le collezioni della maison calzaturiera parigina.

In entrambi i procedimenti promossi contro Amazon, Louboutin ha lamentato che tra i vari annunci presenti sulla piattaforma, vi fossero offerte in vendita numerose scarpe con la suola rossa, asserendo che il gestore avesse agito in violazione dei suoi diritti esclusivi, avendo pubblicizzato e commercializzato – senza il suo consenso – prodotti identici a quelli per cui è registrato il suo marchio.

Le corti nazionali adite – del Lussemburgo per la causa C-148/21, e del Belgio per la causa C-184/21 – hanno entrambe rimesso la questione alla Corte di Giustizia tramite rinvio pregiudiziale, allo scopo di chiedere al giudice comunitario di fare luce sulla questione della responsabilità dei gestori di piattaforme di vendita online.

Nello specifico, tramiti i suddetti rinvii, è stato richiesto alla Corte se fosse ipotizzabile imputare una responsabilità diretta in capo ai gestori di piattaforme di e-commerce, relativamente alla pubblicazione di annunci di vendita di prodotti contraffatti, pur se offerti da terzi. In più, nelle domande di rinvio, vi era altresì la richiesta di interpretare la nozione di “uso” del marchio disciplinata ai sensi dell’art. 9, paragrafo 2 del Regolamento europeo n. 2017/1001.

Nell’esporre le proprie conclusioni sul tema, l’AG Szpunar ha fatto espresso riferimento alla funzione ed all’attività compiuta da Amazon nel mondo dell’e-commerce, il quale opera come intermediario su un mercato “ibrido” offrendo ai consumatori prodotti sia propri che per conto di terzi, ed altresì servizi di spedizione e di stoccaggio. A tal proposito, l’AG Szpunar ha sostenuto che la presenza del logo di Amazon, in qualità di distributore negli annunci di vendita di terzi, non costituisca connessione con i prodotti offerti. Di conseguenza, anche le violazioni eventualmente commesse non sarebbero attribuibili al gestore della piattaforma, a condizione che nessun elemento induca l’utente normalmente informato a confondere la provenienza dell’annuncio, ed a percepire il marchio del prodotto come parte integrante della pubblicità offerta dal gestore.

In riferimento all’interpretazione dell’Art. 9 del Regolamento europeo, inoltre, l’AG ha ritenuto che l’attività di comunicazione commerciale, effettuata dall’intermediario digitale e gestore di piattaforme e-commerce, non sia configurabile tra le ipotesi di “uso” di un marchio, e che quindi non sia parimenti ravvisabile la responsabilità dello stesso per eventuali violazioni commesse sulla sua piattaforma.

Dunque, per tali ragioni l’AG ha espressamente concluso che Amazon “non può essere ritenuta direttamente responsabile per le violazioni dei diritti dei proprietari di marchi che avvengono sulla sua piattaforma a seguito di offerte commerciali di terzi”.

Seppur non vincolanti per la decisione che spetterà alla Corte, le conclusioni dell’Avvocato Generale rappresentano un rilevante spunto di riflessione in relazione ai criteri di attribuzione della responsabilità in capo ai gestori delle piattaforme e-commerce, soprattutto in vista – e nell’attesa – dell’entrata in vigore del Digital Service Act, e del Digital Markets Act.

Federica Schiavone

IL MARCHIO TRIDIMENSIONALE DELLE CAPSULE NESPRESSO È STATO DICHIARATO NULLO PERCHE’ LA FORMA È TECNICAMENTE NECESSARIA AD OTTENERE UN RISULTATO TECNICO

01/06/2022

Il Tribunale Federale svizzero ha dichiarato la nullità del marchio tridimensionale delle capsule Nespresso. La forma delle stesse, infatti, è stata considerata dal giudice elvetico necessaria ad ottenere un risultato tecnico.

 

Il lungo procedimento che ha visto contrapposte la multinazionale con sede in Svizzera ed Ethical Coffee SA. si è recentemente concluso con una dichiarazione di nullità del marchio 3D delle capsule contenenti il caffè macinato della nota azienda produttrice controllata da Nestlé SA.

La controversia nasceva dall’azione di contraffazione del marchio tridimensionale registrato esercitata da Nestlé nei confronti di Ethical Coffee. La società attrice sosteneva, infatti, che la produzione e la commercializzazione da parte di Ethical Coffee di capsule compatibili con le macchine da caffè Nespresso costituisse una violazione del marchio di forma. Nestlé aveva, infatti, provveduto alla registrazione del segno distintivo a tre dimensioni dapprima in sede interna, presso L’Istituto Federale della Proprietà Intellettuale (IPI) e, successivamente, anche a livello di Unione europea ed internazionale.

Per questi motivi, già nel 2011 Nestlé aveva instaurato un procedimento cautelare nei confronti di Ethical Coffee, chiedendo l’inibizione della condotta di fabbricazione e di vendita, ritenuta in contrasto con i diritti di privativa dell’attrice.

La causa, che si era protratta nel tempo, anche per ragioni dovute al fallimento della società convenuta, veniva decisa nel merito dal Tribunale di Vaud con il rigetto della domanda attorea. Il giudice di primo grado accoglieva, per contro, la domanda riconvenzionale proposta da Ethical Coffee, e dichiarava la nullità del titolo azionato da Nestlé. Secondo il giudice di prime istanze, infatti, il marchio in questione era diventato di pubblico dominio.

La soccombente impugnava il provvedimento in questione, ma anche in secondo grado il giudice dichiarava la nullità del marchio tridimensionale. La motivazione addotta dal Tribunale Federale sottolineava, tuttavia, un aspetto differente rispetto alla decisione del giudice di primo grado, focalizzandosi sulla nozione di forma “tecnicamente causale e sufficiente”.

Secondo l’art. 7, paragrafo 1, lettera e) RMUE, non è possibile registrare un marchio caratterizzato solamente dalla forma o altro componente del prodotto che risulti necessario a pervenire ad una soluzione di un problema tecnico.

La ratio sottostante alla disposizione del legislatore europeo è evitare che vengano tutelate con una protezione potenzialmente rinnovabile all’infinito, come avviene nel caso dei marchi, soluzioni tecniche che dovrebbero, invece, essere oggetto di brevettazione e quindi sottoposte a decadenza decorso il limitato periodo di protezione conferito dal titolo brevettuale.

In conformità con quanto sancito nelle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea CGUE, Koninklijke Philips Electronics NV v. Remington Consumer Products Ltd, 18 giugno 2002, C-299/99 e CGUE, Lego Juris A/S v. Mega Brands Inc., 14 settembre 2010, C‑48/09, la decisione di secondo grado ha sostenuto che la forma si considera “tecnicamente necessaria”, qualora non risulti possibile per i concorrenti ricorrere a soluzioni differenti per risolvere il medesimo problema tecnico, il quale, nel caso di specie, è costituito dalla compatibilità delle capsule con le macchine da caffè Nespresso.

Le perizie tecniche effettuate durante il procedimento, hanno, in effetti, dimostrato che esistono diverse soluzioni presenti sul mercato, ma che esse risultano peggiori in termini di costi di fabbricazione, di inserimento nelle macchine Nespresso e di quantità di caffè contenuta all’interno delle capsule.

Ne deriva, in conclusione, che la dichiarazione di nullità del marchio tridimensionale in questione si è fondata sulla considerazione che la forma delle capsule sia tecnicamente necessaria per permettere l’introduzione delle stesse all’interno di una macchina Nespresso.

Alfredo Bergolo


L’ESISTENZA DI UN SISTEMA DI DISTRIBUZIONE IN DETERMINATE CIRCOSTANZE PUÒ IMPEDIRE L’APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DI ESAURIMENTO DEL MARCHIO

25/05/2022

Il titolare di un marchio di lusso può opporsi alla vendita dei propri prodotti, anche attraverso siti online, ad opera di un rivenditore esterno alla rete di distribuzione selettiva che avvenga con modalità lesive del prestigio e della reputazione del marchio stesso. Ad affermarlo è il Tribunale di Milano in un caso che ha riguardato una nota società di prodotti di alta moda operante nel settore del lusso.

 

Con ordinanza n. 2635/2022 del 28 febbraio 2022, il Tribunale di Milano ha confermato, in sede di reclamo, il provvedimento cautelare con il quale era stato accolto il ricorso proposto da Chanel nei confronti di una società estranea alla propria rete di distribuzione selettiva – Trilab s.r.l. – che rivendeva, tramite e-commerce per parrucchieri, profumi e cosmetici della nota maison francese.

In particolare, il Giudice ha ritenuto sussistenti i “motivi legittimi” ostativi all’esaurimento dei diritti di marchio, sia sotto il profilo della conformità alla normativa Antitrust dei contratti di distribuzione selettiva di Chanel, sia sotto il profilo del prestigio dei prodotti oggetto di tutela, qualificabili come beni di lusso.

Occorre precisare che la distribuzione selettiva è un sistema basato su accordi tra il fornitore e il distributore, in cui il fornitore s’impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri determinati. I distributori s’impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato al sistema. Tale sistema viene in genere utilizzato per beni di elevato livello tecnologico per i quali l’acquirente necessiti di specifica e qualificata assistenza oppure per beni di lusso, al fine di tutelare gli investimenti effettuati dal titolare in termini di prestigio del marchio.

Questo particolare sistema di vendita è astrattamente idoneo a impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza ma, secondo la giurisprudenza italiana e comunitaria, può essere considerato legittimo a condizione che: (i) sia limitata a prodotti di elevata tecnicità o di lusso e di prestigio, al fine di conservarne la qualità e garantirne un utilizzo corretto; (ii) la scelta del rivenditore autorizzato sia basata su criteri oggettivi; (iii) i limiti imposti alla libera circolazione non vadano oltre il necessario.

Nel caso di specie, il  giudice, dopo aver riconosciuto legittimo il sistema di distribuzione selettiva di Chanel (in quanto le clausole contenute nei relativi accordi erano destinate unicamente a salvaguardare il prestigio e l’alta rinomanza del marchio) si è soffermato sulla possibilità di considerare la distribuzione selettiva un legittimo motivo idoneo a derogare al principio dell’esaurimento, consentendo al titolare del marchio di lusso d’impedire la circolazione del bene commercializzato da un terzo in violazione delle clausole concordate con il distributore autorizzato.

Il principio dell’esaurimento ai sensi dell’art. 5 c.p.i. prevede che le facoltà esclusive attribuite al titolare si esauriscono con la prima immissione in commercio dei prodotti da parte del titolare o con il suo consenso a meno che sussistano “motivi legittimi” che giustifichino l’opposizione del titolare del marchio all’ulteriore commercializzazione dei propri prodotti.

Secondo Chanel, Trilab commercializzava i prodotti a marchio Chanel al di fuori della rete di distribuzione selettiva con grave pregiudizio in danno alla stessa perché le modalità di vendita e offerta in vendita, per le caratteristiche che presentavano, erano lesive della reputazione della maison.

Tali modalità, estranee agli standard qualitativi di Chanel, consistevano nell’offerta dei prodotti su un sito e-commerce per parrucchieri, con immagini sfocate e con affollamento di contenuti accanto a prodotti di diversa natura merceologica e con marchi di profilo più basso. I prodotti venivano quindi presentati sul sito e-commerce per parrucchieri in contrasto con il messaggio di esclusività e lusso elitario dell’alta profumeria che Chanel intende comunicare.

Alle modalità di vendita descritte si affiancava anche l’alterazione dei prodotti originali attraverso la rimozione dei codici identificativi: la manipolazione dei prodotti costituisce un ulteriore e diverso elemento idoneo ad escludere l’applicazione del principio di esaurimento del marchio.

Chanel ha sostenuto che il packaging alterato non soltanto pregiudica agli occhi del consumatore l’immagine di qualità e di prestigio che contraddistingue i prodotti Chanel, ma impedisce anche a quest’ultima di identificare la genuinità dei prodotti e la loro fonte di provenienza vanificando l’intero sistema di tracciamento predisposto da Chanel nell’ambito dei controlli necessari per la tutela della rete di distribuzione selettiva.

Il collegio ha dunque ritenuto le argomentazioni di Chanel tutte condivisibili e ha pertanto disposto l’inibitoria, assistita da penale, all’ulteriore commercializzazione, offerta in vendita, promozione e pubblicizzazione dei prodotti a marchio Chanel sul sito di e-commerce di Trilab, nonché la pubblicazione del dispositivo dell’ordinanza sul sito della stessa.

L’ordinanza qui in commento mette in luce che il sistema di distribuzione selettiva deve essere visto non solo in un’ottica di tutela del titolare del marchio, ma anche del consumatore che può fare affidamento sugli elevati standard qualitativi dei prodotti distribuiti e sulla professionalità dei distributori.

Anna Colmegna