IL RECEPIMENTO DELLA DIRETTIVA COPYRIGHT IN ITALIA E IL NUOVO REGIME DI RESPONSABILITÀ DEI PRESTATORI DI SERVIZI ONLINE

21/09/2021

Il 5 agosto 2021 è stato adottato lo schema di decreto legislativo che recepisce la Direttiva UE 2019/790, con la quale il legislatore europeo aggiorna il diritto d’autore in rete. Particolare importanza assumono le disposizioni in tema di responsabilità dei “prestatori di servizi di condivisione di contenuti online”, anche se passibili di interpretazioni divergenti.

 

Il 5 agosto 2021 il Consiglio dei ministri ha adottato lo schema preliminare di decreto legislativo che recepisce la Direttiva UE 2019/790 sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale che sarà ora sottoposto al vaglio del Parlamento per poi essere introdotto nell’ordinamento interno dal Consiglio dei ministri nella sua versione finale.

Il recepimento della Direttiva in questione è di notevole portata poiché si propone di innovare la disciplina sul diritto d’autore online e di bilanciare gli interessi in gioco contrastanti quali la libertà d’espressione degli utenti e la libertà di iniziativa economica delle piattaforme.

L’importanza della Direttiva è costituita, oltre che dalla concessione di nuovi diritti connessi in capo agli editori, soprattutto da un’incisiva modifica del regime di responsabilità configurabile in capo ai fornitori di servizi Internet, detentori degli “strumenti” tecnologici attraverso i quali gli illeciti vengono commessi.

In particolare, è doveroso sottolineare come la diffusione dei contenuti protetti da diritto d’autore sia aumentata proprio grazie ai servizi offerti dai provider, i quali permettono lo scambio e la memorizzazione di tali contenuti in modo assai celere e semplice per i loro utenti. Sebbene, dunque, si stia assistendo ad una dematerializzazione delle opere creative, non per questo è possibile affermare che la loro trasmissione in rete non conservi una componente fisica, vale a dire l’utilizzo delle infrastrutture predisposte dai provider. Essi, infatti, costituiscono un crocevia fondamentale per la condivisione di contenuti protetti in rete ed è per questo motivo che il legislatore europeo ha individuato in loro un ruolo essenziale nel contrastare contenuti in violazione del diritto d’autore.

La Direttiva, per quanto qui rileva, è oggetto di interesse per il cambio di rotta adottato dal legislatore comunitario in merito alla responsabilità dei provider. La Direttiva, infatti, individua una categoria diversa da quelle determinate dalla Direttiva 2000/31/CE, sancendo una responsabilità con approccio positivo, diversamente dai regimi di esenzione previsti dalla Direttiva e-commerce. Il legislatore europeo si concentra sulle piattaforme che permettono la memorizzazione e la condivisione di contenuti protetti da diritto d’autore, veri protagonisti della diffusione delle opere creative online.

Dopo un iter legislativo molto burrascoso, in particolare per quanto concerne la disposizione riguardante il rapporto tra provider che offrono servizi di memorizzazione e di accesso al pubblico a contenuti protetti dal diritto d’autore e i titolari dei diritti, si è addivenuti ad una versione finale dell’odierno art. 17 della nuova Direttiva copyright.

La ratio con la quale è stata formulata la norma in esame è rinvenibile al considerando 61. Stando a quanto dichiarato dal considerando 61, l’attività svolta dai provider di servizi di condivisione di contenuti protetti da diritto d’autore contribuisce a infondere “incertezza” in merito alla situazione giuridica che si concretizza in capo detti provider. Ci si chiede, innanzitutto, se l’attività di questi costituisca un’utilizzazione dei contenuti protetti da diritto d’autore e, in subordine, se essi debbano richiedere o meno il consenso dei titolari dei diritti, al fine di poter utilizzare le opere protette.

Tale insicurezza viene, poi, proiettata anche sugli stessi titolari dei diritti, i quali incontrano difficoltà nel comprendere se e come le loro opere vengano utilizzate, imbattendosi in ostacoli non insignificanti nell’ottenere un giusto compenso.

Il considerando 61 esprime, infine, uno degli obiettivi principali della Direttiva, vale a dire l’agevolazione della conclusione di contratti di licenze tra titolari dei diritti e fornitori di servizi online, in modo tale che i primi raggiungano risultati equi anche in termini economici, in ogni caso non imponendo condizioni contrattuali “dall’alto”, ma nel rispetto della libertà di iniziativa economica.

Fissate, dunque, le intenzioni sulle quali si fonda la disposizione, il legislatore europeo ha stabilito che qualora un intermediario agisca in modo tale che la sua azione sia configurabile come concessione al pubblico dell’accesso a materiale tutelato da diritto d’autore, questi dovrà richiedere obbligatoriamente un’autorizzazione al titolare dei diritti su detto materiale.

Essenziale elemento che innova la portata della responsabilità della nuova categoria dei “prestatori di servizi di condivisione di contenuti online”, così come definita dalla Direttiva, è che il consenso ottenuto da questi ultimi, stipulando, ad esempio, “accordi di licenza” con i titolari dei diritti, deve riguardare anche le utilizzazioni effettuate dagli utenti “che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 3 della Direttiva 2001/29/CE”, anche per uso personale e non per perseguire fini commerciali. L’incidenza di questo obbligo è comprensibile anche alla luce dell’assenza dell’operabilità del regime di esenzione da responsabilità definito dall’art. 14 della Direttiva e-commerce, qualora i provider compiano atti di comunicazione al pubblico o di messa a disposizione del pubblico di contenuti caricati dagli utenti.

Il gravoso obbligo che viene imposto a questi intermediari, tuttavia, viene mitigato attraverso una sorta di esenzione da responsabilità che interviene a beneficio di coloro che non abbiano ottenuto un’autorizzazione da parte dei titolari dei diritti, a patto che venga osservata una serie di accorgimenti.

Innanzitutto, (a) si richiede all’intermediario di aver compiuto “i massimi sforzi” nell’intento di stringere un accordo con il titolare dei diritti; b) in secondo luogo, il provider deve aver provveduto ad impedire che le opere individuate insieme al titolare dei diritti siano rese accessibili al pubblico tramite le proprie tecnologie, compiendo, anche in questo frangente, “i massimi sforzi”, nonché osservando “elevati standard di diligenza professionale di settore”; c) per concludere, il prestatore di servizi online deve, in ogni caso, essersi attivato senza indugio al fine di disabilitare l’accesso o rimuovere i contenuti indicati in seguito ad una segnalazione ricevuta da parte del titolare dei diritti e aver impiegato “i massimi sforzi” per prevenire l’ulteriore ed eventuale upload dei contenuti individuati dal titolare dei diritti.

Nell’analizzare queste previsioni richieste al provider che voglia beneficiare di questa sorta di nuovo safe harbour, acquista particolare rilevanza l’espressione “i massi sforzi”, utilizzata dal legislatore per sottolineare l’impegno impiegato dal prestatore del servizio nell’ottenere l’autorizzazione da parte dei titolari dei diritti. Tale terminologia rischia di creare, in fase di recepimento, delle discrepanze tra gli ordinamenti dei vari Stati Membri. La connotazione che può assumere l’espressione in esame, infatti, può essere sia quantitativa, sia qualitativa. Nello specifico, se, da un lato, la si interpretasse nel senso di “massimi sforzi in senso assoluto” si rischierebbe di gravare eccessivamente sui prestatori di servizi; dall’altro, qualora si intendesse conferire un significato più simile a “i migliori sforzi possibili”, si potrebbero nuovamente porre in uno stato di incertezza giuridica i titolari dei diritti. I legislatori nazionali, dunque, dovranno avere l’accortezza di recepire l’espressione in esame attraverso i canoni del principio di ragionevolezza e proporzionalità.

In conclusione, le istituzioni comunitarie hanno preso coscienza della necessità di tutelare in modo più efficace ed efficiente il diritto d’autore, poiché in esso è stato individuato il valido propulsore della creatività, oltre che importante incentivo economico per l’industria creativa e per l’economia in generale, anche se lo strumento legislativo della direttiva potrebbe lasciar spazio a testi normativi interni differenti che frammenterebbero l’operato propositivo dell’Unione Europea.

Alfredo Bergolo


IL ROSSETTO CHE LASCIA IL SEGNO: IL TRIBUNALE DELL’UNIONE EUROPEA RICONOSCE LA REGISTRABILITÀ DELLA FORMA DEL ROSSETTO GUERLAIN COME MARCHIO TRIDIMENSIONALE COMUNITARIO

14/09/2021

Con la decisione del 14 luglio 2021 il Tribunale dell’Unione Europea ha annullato la decisione della prima Commissione di ricorso dell’Ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) del 2 giugno 2020, ritenendo la forma del rossetto Rouge G di Guerlain dotata di carattere distintivo e, pertanto, idonea ad essere registrata come marchio tridimensionale.

 

Il marchio, creando un collegamento tra i prodotti immessi nel mercato e l’azienda, agevola il consumatore nel reperimento dei prodotti ricercati, consente al titolare di costruire e rafforzare l’identità della propria azienda e allo stesso tempo premia i produttori efficienti, nella misura in cui questi riescano a capitalizzare i propri meriti imprenditoriali all’interno del segno distintivo, divenendo uno strumento fondamentale nelle strategie concorrenziali.

Tradizionalmente il ruolo di indicatore della provenienza di un articolo di fashion design è affidato al marchio denominativo e al marchio figurativo. Raramente le case di moda ritengono la forma stessa del prodotto idonea a svolgere la funzione distintiva, poiché si ritiene che il consumatore abbia una maggior facilità ad attribuire un significato di indicatore a un termine o ad un logo piuttosto che ad una forma. Questo non significa che il mondo della moda sia sprovvisto di marchi tridimensionali: Hermès, attualmente, tra marchi registrati e oggetto di domanda, conta più di trenta marchi di forma, Ferragamo ne conta quarantasette.

Il numero delle aziende nel settore moda che può vantare la titolarità di diverse registrazioni di marchi tridimensionali, negli ultimi anni, è in costante aumento. A seguito della decisione del Tribunale dell’Unione Europea tra questi si annovera anche il rossetto Rouge G di Guerlain.

 

Il Tribunale dell’Unione Europea ha recentemente annullato la decisione resa della prima Commissione ricorsi dell’Ufficio Europeo per la Proprietà Intellettuale (EUIPO), riguardante la domanda di registrazione di un segno tridimensionale costituito dalla forma di un rossetto oblunga, conica e cilindrica come marchio dell’Unione Europea proposta da Guerlain.

In data 19 ottobre 2018, Guerlain aveva depositato una domanda di registrazione dell’Unione Europea avente ad oggetto la forma di un rossetto in classe 3 per prodotti “rossetti”.

L’EUIPO aveva rifiutato la domanda ritenendo il segno privo di carattere distintivo. Tale decisione era stata, altresì, confermata dalla prima Commissione di ricorso a fronte della considerazione secondo cui la forma del rossetto Rouge G di Guerlain non si discostasse dalle altre forme usuali presenti in commercio.

Il Tribunale dell’UE, in data 14 luglio 2021, si è pronunciato sul caso, annullando le decisioni precedenti, ritenendo che la forma oggetto d’esame “è inusuale per un rossetto e differisce da qualsiasi altra forma presente sul mercato” (par. 49).

Questa decisione si pone a sostegno del condivisibile orientamento secondo cui il carattere distintivo di un marchio tridimensionale va valutato caso per caso, guardando alla norma e agli usi del settore di riferimento che “comprendono tutte le forme che il consumatore ha l’abitudine di reperire sul mercato” e verificando se il prodotto sia in grado di generare un effetto visivo inusuale nel pubblico.

Il Tribunale, negando le conclusioni della Commissione, ha evidenziato come il semplice fatto che una forma costituisca una «variante» di una delle forme abituali di un tipo di prodotti non sia sufficiente a stabilire che detta forma non sia priva di carattere distintivo; il fatto che un settore sia caratterizzato da una considerevole varietà di forme di prodotti non implica che un’eventuale nuova forma sia necessariamente percepita come una di esse (par. 50).

Con riferimento alla capacità di una forma di essere percepita quale indicatore di provenienza, il Tribunale ha sottolineato che la circostanza che taluni prodotti presentino un design di qualità non implica necessariamente che un marchio costituito dalla forma tridimensionale di tali prodotti sia dotato ab initio di capacità distintiva (par. 42). Al contrario, l’aspetto estetico del prodotto dovrà essere oggetto di valutazione volta ad accertare uno scostamento dalla norma e dagli usi del settore, purché tale aspetto estetico sia inteso come richiamante l’effetto visivo oggettivo e inusuale del design specifico del marchio suddetto. Di conseguenza, ad opinione del Tribunale, la presa in considerazione dell’aspetto estetico del marchio richiesto non deve equivalere ad una valutazione, che per definizione sarebbe soggettiva, sulla bellezza del prodotto di cui trattasi o sulla mancanza della stessa, bensì mira a verificare se tale aspetto sia idoneo a suscitare un effetto visivo oggettivo e inusuale presso il pubblico di riferimento (par. 44).

Nel caso di specie la suddetta analisi ha portato il Tribunale dell’Unione Europea a concludere che la forma del rossetto Rouge G di Guerlain sia poco comune per un rossetto e si distingua da qualsiasi altra forma esistente sul mercato, in quanto:

  • la forma ricorda quella dello scafo di una barca o di una carrozzina per bambini” distinguendosi quindi dalla forma cilindrica o parallelepipeda presentata dalla maggior parte dei rossetti presenti sul mercato;
  • la presenza della piccola forma ovale in rilievo è insolita” e pertanto contribuisce all’aspetto non comune del marchio richiesto;
  • infine, il fatto che il rossetto rappresentato dal marchio tridimensionale non possa essere collocato in posizione verticale rafforza l’aspetto visivo non comune della sua forma.

Questi elementi permettono di identificare il prodotto come proveniente da una determinata azienda e quindi di distinguerlo dai prodotti di altre imprese. Lo stesso è, pertanto, dotato di capacità distintiva ai sensi e per gli effetti si cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) 2017/1001 ed è pertanto idoneo a costituire valido marchio.

Giulia Spata


L’AFFAIRE “FAIT D’HIVER”: JAFF KOONS (NUOVAMENTE) CONDANNATO PER PLAGIO

16/03/2021

Con la decisione del 23 febbraio 2021 la Cour d’Appel de Paris (CA Paris, 5, 1, 23 febbraio 2021, n° 19/09059) ha confermato la sentenza di primo grado emanata nel 2018 e ha condannato per plagio il celebre artista appropriazionista Jeff Koons: l’opera “Fait d’hiver” del 1988 è stata difatti ritenuta plagiaria di una pubblicità del 1985.

 

Il caso
Delle numerose vicende giudiziarie di cui si è reso protagonista Jeff Koons, controverso artista americano che ha fatto dell’appropriazione e della rivisitazione di creazioni altrui la sua inconfondibile cifra stilistica, interessante è certamente quella relativa all’affaire “Fait d’hiver”. Con una decisione del 2018, il Tribunal de Grand Istance di Parigi aveva già ritenuto la statua in porcellana di Koons, raffigurante una donna sdraiata in mezzo alla neve e soccorsa da un maiale, plagiaria di una campagna pubblicitaria ideata da Franck Davidovici nel 1985 per il marchio di abbigliamento “Naf Naf”.

Fait d’Hiver di Davidovici

Fait d’Hiver di Koons

Nel fondare la propria decisione, il Tribunale aveva adottato una concezione soggettiva di originalità, che era stata valutata non tanto in relazione alla natura e al risultato dell’appropriazione di Jeff Koons, quanto piuttosto all’opera resa oggetto di tale appropriazione. E così, valutando indiscutibilmente originale l’opera preesistente ed evidenziando, per mezzo del raffronto fra i lavori, come nelle proprie creazioni l’artista americano avesse pedissequamente ripreso elementi caratterizzanti il lavoro di Franck Davidovici, il giudice aveva applicato la regola generale in base alla quale la ripresa di elementi originali di opere altrui senza aver ottenuto prima il consenso degli autori configura gli estremi della contraffazione. In forza di una sistematica interpretazione dei requisiti richiesti dalla legge e dettati dalla giurisprudenza, anche l’eccezione di parodia sollevata dalla difesa era stata rigettata dal TGI di Parigi: il giudice difatti aveva osservato che, oltre a mancare del tutto l’intenzione dell’artista statunitense di suscitare un effetto comico-umoristico per mezzo dell’opera, in luogo del quale era invece possibile rilevare la volontà dello stesso di muovere una critica o una riflessione di più ampio respiro, interveniva anche il problema relativo al grado di notorietà dell’opera parodiata. Secondo il Tribunale parigino, l’assenza di notorietà della creazione di Davidovici non poteva che portare alla confusione nel pubblico fra la parodia e l’opera parodiata.
La decisione della Cour d’Appel de Paris e la condanna di Jeff Koons
Il ricorso promosso da Jeff Koons nei confronti della sentenza di primo grado non ha però ottenuto gli effetti sperati dall’artista. A nulla è servito il tentativo della difesa di esaltare, anche in questa sede, il principio della libertà di espressione e la sussistenza di un détournement ideologico – un mutamento di senso fra la creazione originale e quella successiva – quali tratti caratterizzanti la poetica dell’Appropriation Art ed elementi fondanti l’autonomia e l’originalità dell’opera appropriativa. Difatti, pur non negando la sussistenza di «un’ispirazione» alla pubblicità ideata da Davidovici, la difesa di Koons ribadiva che la versione in porcellana di “Fait d’hiver” fosse «un’opera d’arte in piena regola, che porta l’impronta della personalità del suo autore e un messaggio artistico che gli è proprio». La Corte d’Appello, tuttavia, confermando sostanzialmente quanto era già stato osservato dal TGI in primo grado e rigettando nuovamente l’eccezione di parodia per assenza dei requisiti richiesti dalla legge, ha rilevato invece che «l’opera non è stata presentata come una critica, una caricatura o come ispirata da un’opera precedente» e che in ogni caso, «se esistono delle differenze, le somiglianze sono qui predominanti». Quanto alla libertà di espressione, la Cour d’Appel ha ritenuto che la restrizione della portata di tale principio, ai sensi dell’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, fosse necessaria e proporzionata rispetto agli interessi morali e materiali di Davidovici.
Sanzionati insieme all’artista statunitense sono anche il Centre Pompidou, che aveva esposto “Fait d’hiver” nel 2014, e la Fondazione Prada, i quali dovranno pagare 190 mila euro a Frank Davidovici per l’opera plagiata, oltre a 14 mila euro per averne riprodotto l’immagine sul sito web www.jeffkoons.com. Stessa sorte anche per il gruppo editoriale Flammarion, che aveva venduto il catalogo contenente l’immagine dell’opera giudicata plagiaria.
Resta da vedere se la condanna della Cour d’Appel metterà un punto definitivo a questa vicenda, o se l’artista statunitense proporrà ricorso in Cassazione.

Federica Gattillo


STREET ART E DIRITTO: IL CONSIGLIO DI STATO SOSPENDE L’ORDINE DI RIMOZIONE DI UN MURALES FINO AD UNA NUOVA VALUTAZIONE DELLA SUA COMPATIBILITA’ PAESAGGISTICA

02/03/2021

Con sentenza n. 7872 del 10 dicembre 2020 il Consiglio di Stato, in parziale riforma dell’ordinanza n. 46 del 20 marzo 2018 resa dal TAR Piemonte, ha provvisoriamente sospeso l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un’opera di street art emesso dal Comune di Avigliana, avendo quest’ultimo negato la richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica del murales senza una effettiva valutazione di merito e sulla base di argomenti puramente formalistici.

 

Il caso trae origine dalla realizzazione di un murales, da parte di un noto street artist spagnolo, sulla parete di un immobile situato in un’area sottoposta a vincolo ambientale e paesaggistico secondo le disposizioni del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. A seguito dell’ordine di demolizione dell’opera reso dall’amministrazione locale competente, il proprietario dell’immobile interessato dal murales si è attivato domandando da un lato la dichiarazione di interesse storico artistico dell’opera, dall’altro l’accertamento della sua compatibilità paesaggistica. Entrambe le domande sono state rigettate.

In tale scenario, la ricorrente ha impugnato avanti il TAR l’ordine di demolizione del Comune di Avigliano e il diniego della dichiarazione di compatibilità paesaggistica, ma non il secondo diniego relativo alla dichiarazione di interesse storico artistico del murales. Il TAR, con l’ordinanza citata, ha respinto entrambi i ricorsi. Da qui l’appello al Consiglio di Stato.

I primi tre motivi di appello, con i quali si invocava tra l’altro l’applicazione dell’art. 50 Codice Beni Culturali, che vieta il distacco di affreschi e graffiti senza la previa autorizzazione della soprintendenza, venivano rigettati poiché la tesi del ricorrente, fondata sul presunto pregio artistico dell’opera interessata, risultava irrilevante ai fini del procedimento, “nel quale vengono in considerazione solo gli aspetti edilizio-urbanistico e paesaggistico” dell’opera, non avendo il ricorrente impugnato, come visto, il provvedimento di diniego della domanda di dichiarazione di interesse storico-artistico del murales. Ciò nonostante che le argomentazioni fatte valere dal ricorrente in tema di interesse storico-artistico dell’opera fossero giudicate dallo stesso Consiglio di Stato come “suggestive”.

Ha invece trovato accoglimento il quarto motivo di appello, relativo al diniego della domanda di compatibilità paesaggistica dell’opera. Sul punto il Consiglio di Stato ha condiviso la censura del ricorrente per cui il TAR ha errato nel non considerare rilevante il fatto che l’amministrazione comunale, nel denegare la domanda dell’interessato, non abbia preventivamente coinvolto la soprintendenza. Rileva sul punto il Consiglio che ai sensi dell’art. 146 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio “la Soprintendenza esercita non più un sindacato di mera legittimità sull’atto autorizzatorio di base adottato dalla Regione o dall’ente subdelegato […], ma una valutazione di ‘merito amministrativo’, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico”. Questa avrebbe dovuto dunque essere coinvolta dal Comune prima di emettere la propria decisione, e ciò a prescindere dalla presunta inottemperanza dell’interessato alla richiesta di integrazione documentale avanzata dall’amministrazione comunale la quale – per inciso – è stata peraltro giudicata contraria ai principi di economicità, efficacia e collaborazione della p.A. dal momento che il Comune già disponeva di tutti gli elementi per effettuare una valutazione di merito sulla richiesta.
Sulla base di tali considerazioni il Consiglio di Stato, nell’accogliere il ricorso avverso il diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica, ha ordinato all’amministrazione di provvedere ad una nuova valutazione della compatibilità paesaggistica del murales con il vincolo che grava sull’area in cui l’opera è stata realizzata, previa consultazione della sovrintendenza. Con la conseguenza che, in applicazione dell’art. 167 Codice Beni Culturali, in caso di valutazione paesaggistica positiva, la misura della rimessione in pristino dell’area – e dunque della demolizione del murales – dovrà essere sostituita dall’applicazione di una sanzione amministrativa. Fino a tale rivalutazione, l’ordine di demolizione deve intendersi sospeso.

La sentenza in oggetto si presenta di particolare interesse poiché affronta, seppur indirettamente, il tema sempre più attuale del modo in cui debba risolversi il necessario bilanciamento tra beni giuridicamente tutelati, ossia i diritti privati di proprietà e d’autore (nel cui ambito di protezione ricadono certamente i murales) da un lato e l’interesse pubblico della tutela ambientale e paesaggistica e della conseguente normativa del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Giorgio Rapaccini


PIRATERIA ONLINE: IL TRIBUNALE DI MILANO CONFERMA LA LEGITTIMAZIONE PASSIVA DI UN FORNITORE DI CDN (Content Delivery Network) A ORDINI CAUTELARI DI INIBITORIA

16/02/2021

Con due ordinanze del 12 e 15 febbraio 2021, il Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa, ha confermato la piena legittimazione passiva di un gestore di servizi di Content Delivery Network (CDN) ad ordini di inibitoria finalizzati a bloccare servizi online che trasmettono contenuti protetti senza autorizzazione.

 

Le recentissime decisioni in commento, giunte all’esito di due procedimenti di reclamo istaurati da un gestore di servizi CDN (uno dei quali impugnava l’ordinanza commentata QUI), hanno confermato quanto già in precedenza sostenuto in relazione all’obbligo anche per un fornitore di CDN di rispettare l’ordine di inibitoria volto a bloccare la fornitura dei servizi, comunque qualificati o qualificabili, erogati per l’accesso ai servizi IPTV illeciti. In entrambi i casi, i Collegi hanno respinto le doglianze avversarie secondo cui non sussisteva legittimazione passiva essendo l’intermediario un mero fornitore di servizi di memorizzazione transitoria dei dati consistenti nella ottimizzazione della fruizione di servizi web.

Anzitutto, i provvedimenti hanno riconosciuto l’illiceità di siti vetrina, ovvero di siti web che pubblicizzano IPTV abusive e le promuovono mettendo gli utenti in condizione di stipulare gli abbonamenti illeciti, di effettuare i pagamenti e di procurarsi i mezzi informatici per accedere ai servizi stessi, in particolare sostenendo che il fornitore di servizi di CDN consente la visibilità di tali siti vetrina, anche tramite l’archiviazione di dati di tali siti, il supporto e l’ottimizzazione, partecipando così al flusso dei dati senza autorizzazione del titolare dei diritti e contribuendo dunque causalmente alla violazione come concretamente essa si estrinseca.

Come conseguenza, tale intermediario può certamente essere soggetto passivo del comando cautelare che ricade nell’ambito della protezione di cui agli artt. 156 e 163 l.a., a seguito della modifica introdotta dal d. lgs. 70/2003 in attuazione dell’art. 8 par. 3 della Direttiva 29/2001, che consentono al soggetto leso di ottenere tutela, sia in via di urgenza sia di pieno accertamento, nei confronti di tutti i soggetti che contribuiscano causalmente alla violazione del diritto altrui, ancorché la frazione di condotta singolarmente attuata non costituisca in sé una violazione imputabile del diritto d’autore.

Del tutto irrilevante è stata ritenuta la qualificazione tecnica dei servizi erogati considerando che in tutte le ipotesi inquadrate dalla Direttiva 2000/31 e dal d.lgs. 70/2013 (mere conduit, caching, hosting) è sempre previsto che l’autorità giudiziaria possa esigere anche in via d’urgenza che il prestatore del servizio impedisca o ponga fine alle violazioni commesse, a prescindere dall’accertamento di qualsivoglia responsabilità rispetto all’illecito.

Infine, entrambe le decisioni hanno confermato la dinamicità di siffatti ordini di inibitoria, essendo estesi a tutti gli “alias” (ovvero DNS e indirizzi IP utilizzati in futuro dai gestori dell’IPTV per svolgere la stessa attività illegale), a seguito di una comunicazione specifica dei titolari dei diritti all’intermediario.

Margherita Stucchi