PIRATERIA ONLINE: PER LA PRIMA VOLTA IN ASSOLUTO IL TRIBUNALE DI MILANO IMPONE IL BLOCCO DEI SERVIZI ANCHE A UN FORNITORE DI CDN (Content Delivery Network).

07/10/2020

Con ordinanza del 5 ottobre 2020, il Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa, ha per la prima volta ordinato ad un provider di cessare immediatamente, nella gestione del servizio di Content Delivery Network (CDN), la fornitura di tutti i servizi della società dell’informazione e/o di intermediazione – comunque qualificati/qualificabili – erogati a favore di servizi online che trasmettevano contenuti protetti senza autorizzazione.

 

L’ordinanza in commento ha confermato un provvedimento cautelare reso inaudita altera parte nel settembre 2019 nei confronti di alcuni provider coinvolti nella trasmissione di contenuti protetti attraverso servizi online. Il provvedimento ordinava agli intermediari resistenti la cessazione immediata della fornitura dei servizi di mere conduit e di hosting relativi ai servizi online, indipendentemente dal nome a dominio utilizzato o al numero di indirizzo IP, in ossequio a quanto disposto dagli artt. 14 e ss. D. Lgs. n. 70/2003, attuazione della direttiva 2000/31/CE (meglio nota come Direttiva Ecommerce).

In particolare, ai sensi degli artt. 14, dedicato ai mere conduit (ovvero i soggetti che forniscono un accesso alla rete di comunicazione), e 16, dedicato agli hosting provider (ovvero prestatori di servizi di memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio), l’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza può esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore impedisca o ponga fine alle violazioni commesse. Lo stesso ordine può essere emesso, ai sensi dell’art. 15 del D. Lgs. n. 70/2003, nei confronti di prestatori di servizi di memorizzazione automatica, intermedia e temporanea (ovvero “caching” provider). Ai sensi dell’art. 17 D. Lgs. n. 70/2003, fra l’altro, il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non abbia agito prontamente per impedire l’accesso a detto contenuto.

Uno degli intermediari resistenti, fornitore di servizi cd. di CDN (Content Delivery Network), ossia di accelerazione nella trasmissione dei contenuti, si difendeva sollevando una serie di eccezioni, fra cui il difetto di giurisdizione e la propria carenza di legittimazione passiva. A questo proposito, affermava di non poter essere soggetto ad inibitoria, in quanto si sarebbe limitato a prestare servizi di memorizzazione transitoria dei dati consistenti nella ottimizzazione della fruizione di servizi web e di non aver manipolato, modificato o operato direttamente sui contenuti dei siti dei suoi clienti. Per tale ragione, il fornitore non avrebbe avuto la possibilità di intervenire sui server che ospitavano i contenuti non autorizzati. Con riferimento alla qualificazione delle proprie attività, il fornitore affermava che un servizio CDN non poteva essere qualificato come un servizio di “hosting”, essendo piuttosto un mix di “caching” e “mere conduit”.

Il Tribunale di Milano ha ritenuto l’eccezione della resistente infondata, affermando che il servizio prestato dal provider, consentendo ai dati illecitamente trasmessi di transitare lungo la rete Internet tramite il servizio Content Delivery Network (CDN) senza essere in alcun modo memorizzati, configura comunque una condotta che contribuisce – anche mediante l’attività di conservazione temporanea di dati statici – a permettere a terzi l’azione illecita oggetto di procedimento. Il tribunale ha quindi chiarito che tutti gli operatori di servizi della società dell’informazione sono passivamente legittimati nei confronti di azioni inibitorie, del tutto a prescindere dal loro elemento soggettivo (che non è neppure indagato in questa sede), e anche dal loro ruolo.

Il Tribunale di Milano ha dunque pienamente confermato il decreto emesso inaudita altera parte anche nei confronti del provider di servizi di CDN, ordinando specificatamente a quest’ultimo di cessare in ogni caso ed immediatamente, la fornitura di tutti i servizi della società dell’informazione e/o di intermediazione – comunque qualificati/qualificabili – erogati a favore dei servizi online abusivi, indipendentemente dal nome a dominio o al numero di indirizzo IP da questi utilizzati.

Si tratta di una decisione innovativa, giunta all’esito di un giudizio cautelare durato oltre un anno, che ha visto totalmente accolte le domande proposte dal titolare dei diritti e dalla licenziataria esclusiva. Per la difesa delle parti ricorrenti era difatti indiscutibile che il fornitore di CDN dovesse essere destinatario del provvedimento di inibizione, come ogni altro fornitore di servizi della società dell’informazione, anche ove non rientrante nelle categorie – previste dalla direttiva Ecommerce – di fornitore di servizi di mere conduit, caching, hosting.

Peraltro, secondo la tesi delle parti ricorrenti, le attività del provider non potevano comunque rientrare nella definizione di “caching”, perché fra i servizi del fornitore erano inclusi anche attività di “memorizzazione” effettuata in modalità non transitoria, qualificabile quindi come attività di hosting.

In ogni caso, la qualificazione del provider (mere conduit, caching o hosting) non avrebbe in alcun modo modificato la sostanza dell’ordine che avrebbe dovuto essere pronunciato nei confronti dell’operatore, dal momento che – a prescindere dalla qualificazione del servizio reso dall’operatore stesso – questo deve interrompere le attività illecite non appena riceva l’ordine di cessazione da parte del giudice compente, e ciò sia sulla base della direttiva E-commerce n. 2000/31/CE che sulla base del D.lgs. 70/2003 e delle regole generali dell’ordinamento; anzi, la mancata ottemperanza all’ordine è fonte di responsabilità per l’operatore del servizio della società dell’informazione che rimanga inerte. Il provider aveva anche sostenuto la propria carenza di legittimazione passiva sulla base della considerazione che la cessazione dei propri servizi non avrebbe potuto impedire del tutto la prestazione di questi ultimi, attraverso altre modalità: anche su questo punto il Tribunale ha ritenuto che l’argomento non potesse essere accolto, poiché ciò che rilevava era da un lato il coinvolgimento del provider nelle attività illecite, e dall’altro lato la circostanza che la cessazione dei servizi avrebbe comunque potuto produrre risultati utili per il titolare dei diritti, anche in termini di temporanea sospensione o di difficoltà di erogazione per il servizio online abusivo. Il Tribunale, sulla base delle evidenze fornite dalle parti ricorrenti, ha inoltre rilevato come la resistente, in diverse occasioni in Italia e all’estero, avesse effettivamente proceduto con il blocco dei servizi CDN in relazione a siti internet collegati ad illeciti autorali sulla base di ordini dell’autorità giudiziaria.

Margherita Stucchi


Il SEGNO “MESSI” E’ REGISTRABILE COME MARCHIO: LA FORTE SOMIGLIANZA CON IL MARCHIO ANTERIORE “MASSI” E L’IDENTITA’ DEI PRODOTTI NON GENERANO ALCUN RISCHIO DI CONFUSIONE SE IL MARCHIO SUCCESSIVO “MESSI” CONTIENE IL COGNOME DI UN PERSONAGGIO NOTORIO

30/09/2020

Con la sentenza del 17 settembre 2020, resa all’esito dei giudizi riuniti C-449/18 e C-474/18 (al momento disponibile in lingua francese e spagnola al link), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”) ha respinto i ricorsi presentati dall’EUIPO e da una società spagnola avverso la pronuncia del Tribunale UE che autorizzava il calciatore Messi a registrare come marchio il proprio cognome.

 

L’antefatto.
Nel 2011 l’astro del calcio internazionale Lionel Messi depositava presso l’EUIPO domanda per la registrazione di un marchio misto contenente, nella sua parte denominativa, il proprio cognome MESSI, con riferimento a prodotti di abbigliamento, scarpe e articoli sportivi. La domanda, una volta pubblicata, era sottoposta ad opposizione da parte del titolare del marchio anteriore “MASSI”, anch’esso registrato per prodotti di abbigliamento e calzature sportive. L’opponente invocava la sussistenza di un rischio di confusione tra i segni, vista l’elevata vicinanza fonetica e visiva e l’identità merceologica. Con decisione del 12 giugno 2013, l’EUIPO accoglieva l’opposizione e rigettava il marchio MESSI. La decisione era confermata in sede di ricorso avanti la Commissione dell’EUIPO. La vertenza veniva portata avanti al Tribunale dell’Unione Europea, che con sentenza del 26 aprile 2018 accoglieva il ricorso del calciatore e annullava la decisione dell’EUIPO ritenendo che la notorietà del calciatore neutralizzasse le somiglianze visive e fonetiche tra i segni e ne escludesse pertanto il rischio di confusione.
Proponevano ricorso avanti la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sia l’EUIPO che la società titolare del marchio anteriore, contestando tra l’altro che il Tribunale avrebbe erroneamente preso in considerazione la notorietà di Messi per affermare la presenza di un rischio di confusione, anche alla luce di consolidata giurisprudenza comunitaria che afferma che per valutare se dalla somiglianza tra segni derivi un rischio di confusione per il pubblico dei consumatori deve essere vagliata la notorietà del solo marchio anteriore, e che in ogni caso la notorietà deve riguardare il segno e non il suo titolare.

La decisione della Corte.
Con la sentenza in commento la CGUE, confermando la pronuncia del Tribunale, ha fatto proprie le motivazioni di quest’ultimo e nell’escludere qualsiasi rischio di confusione tra i marchi a confronto ha confermato la registrabilità del marchio MESSI.
Nell’iter argomentativo della sentenza, appare di particolare interesse il passaggio della pronuncia in cui i Giudici di Lussemburgo si soffermano sul tema principale invocato dai ricorrenti e dunque sulla rilevanza o meno, ai fini del giudizio di confondibilità tra marchi, della notorietà del segno successivo e del suo titolare. Sul punto la Corte non contesta che – come sostenuto dai ricorrenti – la valutazione della reputazione del marchio anteriore sia di fondamentale importanza per la determinazione del rischio di confusione, trattandosi invero di un fattore imprescindibile. La Corte si spinge tuttavia oltre. Richiamando un precedente in termini (causa C-328/18, sentenza del 4 marzo 2020), la CGUE spiega che il giudizio di confusione tra marchi è un giudizio complesso, che deve tenere in considerazione una molteplicità di fattori ugualmente rilevanti. Tra questi è certamente rilevante la notorietà del marchio anteriore. Questo non esclude tuttavia che sia opportuno e in alcuni casi doveroso prendere in debita considerazione anche la notorietà del soggetto che chiede la registrazione del proprio nome come marchio, se ed in quanto tale reputazione possa effettivamente influenzare la percezione del marchio da parte del pubblico dei consumatori.
Nel caso di specie, conclude la Corte, la reputazione in gran parte del territorio dell’UE del calciatore Messi è talmente alta (al punto da ritenerla come fatto “notorio”, vale a dire un fatto che può essere conosciuto da chiunque o di cui si può venire a conoscenza tramite fonti generalmente accessibili) da distinguere nettamente il marchio MESSI da quello anteriore sotto un profilo concettuale, con esclusione pertanto di ogni rischio di confusione.

Giorgio Rapaccini


EUIPO: LA REGISTRAZIONE DEL MARCHIO “LANCIATORE DI FIORI” DI BANKSY È STATA DEPOSITATA IN MALAFEDE IN QUANTO IL TITOLARE INTENDEVA OTTENERE UN DIRITTO ESCLUSIVO PER “SCOPI DIVERSI DA QUELLI CHE RIENTRANO NELLE FUNZIONI DI UN MARCHIO“.

24/09/2020

La società Pest Control Office Limited di cui si dice che rappresenti il famoso ma ancora non identificato artista chiamato BANKSY ha depositato una domanda di registrazione per un marchio dell’UE, chiedendo la protezione per il “lanciatore di fiori”, l’opera più iconica dell’artista. È apparsa per la prima volta più di 15 anni fa come un graffito a Gerusalemme. La domanda di marchio è stata depositata nel febbraio 2014 e registrata nel settembre dello stesso anno. Graphic Colour Black Ltd., un produttore di cartoline postali che riprendono motivi di graffiti, ha presentato una domanda di dichiarazione di nullità. La divisione di annullamento dell’EUIPO ha dichiarato che il titolare aveva richiesto il marchio in malafede, in quanto lo scopo del deposito era “diverso da quelli che rientrano nella funzione di un marchio”.

 

La decisione dell’EUIPO è stata emessa nell’ambito di una procedura d’invalidità ai sensi dell’art. 59 del regolamento sul marchio dell’Unione Europea. La ricorrente, la società Graphic Colour Black Ltd, ha sostenuto che il titolare del marchio non aveva alcuna intenzione di utilizzarlo. Qualsiasi commercializzazione di prodotti, dopo la scadenza del periodo quinquennale, il cosiddetto grace period, avrebbe avuto l’unico scopo di eludere il requisito dell’uso effettivo. Il deposito sarebbe anche stato un tentativo di aggirare il limite di durata della protezione del diritto d’autore, offrendo il marchio una protezione potenzialmente eterna. Banksy, noto per la sua posizione critica verso il concetto di proprietà intellettuale, avrebbe incitato il pubblico a usare le sue opere e avrebbe rilasciato anche dichiarazioni pubbliche come la seguente “qualsiasi pubblicità in uno spazio pubblico che non ti dà la possibilità di scegliere se vederla o meno è tua. È vostra, potete prenderla, arrangiarla diversamente e riutilizzarla“.

Il titolare del marchio ha sostenuto che l’elemento della malafede non sarebbe stato provato e che l’artista non avrebbe mai autorizzato un uso commerciale dell’opera. Le dichiarazioni pubbliche di Banksy, comprese quelle che incitano a mancare di rispetto alla proprietà intellettuale altrui, non potrebbero essere di ostacolo per ottenere la protezione per un determinato segno, né potrebbero esse modificare in alcun modo la legge stessa. Inoltre, il diritto fondamentale della libertà di espressione richiederebbe che dichiarazioni pubbliche, anche quando critiche dei principi stabiliti a protezione della proprietà intellettuale, possano essere espresse senza doversi aspettare atti di ritorsione da parte di autorità pubbliche. Il regolamento sul marchio dell’Unione europea concede un periodo di grazia di cinque anni durante il quale il proprietario di un segno non avrebbe l’obbligo di decidere l’uso futuro del segno.

La divisione di annullamento dell’EUIPO ha osservato che non esiste una definizione del criterio della malafede. Sebbene l’aspetto rilevante nel tempo fosse il momento del deposito della domanda di marchio, anche gli aspetti precedenti e successivi potrebbero assumere rilevanza nella valutazione dell’intenzione del richiedente. L’EUIPO, dopo aver chiarito che gli scopi della società titolare del marchio non potrebbero essere separati da quelli dell’artista stesso, ha ritenuto che il deposito del marchio avrebbe potuto essere motivato dall’intenzione di aggirare eventuali problemi che l’artista avrebbe dovuto affrontare nell’esercitare eventuali diritti d’autore: l’anonimato dell’artista e la natura stessa delle opere di graffiti (che di solito non godono del consenso del titolare della rispettiva superficie). Inoltre, l’artista stesso aveva tollerato un uso diffuso, dichiarando apertamente che il diritto d’autore era “per i perdenti“.

La divisione di annullamento cita le considerazioni della Corte di giustizia nella decisione SKY vs Skykick (C-371/18): deve considerarsi malafede l’intenzione di pregiudicare, in modo non conforme alla correttezza professionale, gli interessi di terzi, o l’intenzione di ottenere, senza neppur mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli rientranti nelle funzioni di un marchio. Tali elementi ricorrerebbero nel caso in esame: il tentativo di commercializzare prodotti in modo molto limitato ma comunque sufficiente per superare la soglia del requisito dell’uso effettivo mostrerebbe un atteggiamento incompatibile con le pratiche oneste.

La decisione si inserisce in un filone giurisprudenziale già sviluppato in precedenza che riguarda sia le opere ma anche più in generale la controversa figura dell’artista, giurisprudenza che anche alla luce dell’anonimato di Banksy, delle sue dichiarazioni e della natura stessa delle opere di graffiti, pone delle domande che toccano sia il diritto d’autore, sia il diritto dei marchi. La decisione non è definitiva e rimane da vedere come si articolerà in futuro il bilanciamento tra il sempre delicato tema dei limiti al cumulo dei vari diritti di proprietà industriale ed una definizione del criterio della “mala fede”.

Tankred Thiem


COMUNICAZIONE AL PUBBLICO E MISURE TECNICHE DI PROTEZIONE SUL WEB: L’OPINIONE DELL’AVVOCATO GENERALE E DIFFERENZE TRA INLINE LINKING E FRAMING

18/09/2020

In data 10 settembre sono state pubblicate le conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa C-392/19 (VG Bild-Kunst / Stiftung Preußischer Kulturbesitz) pendente dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in cui si afferma che l’incorporazione, in una pagina Internet, di opere provenienti da altri siti Internet mediante il cosiddetto inline linking (collegamenti che riproducono contenuti senza un’azione dell’utente) richiede l’autorizzazione del titolare dei diritti su tali opere in quanto costituisce una “comunicazione al pubblico”. Al contrario, qualora si tratti di incorporazione mediante “framing” (ossia all’interno di un riquadro – più o meno – visibile nella pagina internet) di contenuti la cui visualizzazione richiede una previa azione dell’utente, non si tratta di una “comunicazione al pubblico” e ciò anche quando tale incorporazione elude misure di protezione contro il framing.

 

Fatti, procedimento e questione pregiudiziale
La causa, ora approdata dinanzi alla Corte di Giustizia, origina da una vicenda che vede coinvolte la fondazione tedesca Stiftung Preußischer Kulturbesitz (“SPK”), gestore della Deutsche Digitale Bibliothek (DDB), e la società di gestione collettiva dei diritti d’autore nel settore delle arti visive denominata “VG Bild‑Kunst”. Quest’ultima, per concedere in licenza l’utilizzo delle opere dei propri associati, intendeva imporre alla SPK l’obbligo contrattuale di introdurre misure tecnologiche di protezione avverso il “framing” di terze parti delle opere licenziate a carico della stessa SPK.
SPK instaurava dunque un procedimento giudiziale volto a far dichiarare che tale obbligo sarebbe stato irragionevole dal punto di vista del diritto d’autore e che VG Bild‑Kunst sarebbe stata tenuta a concedere la licenza in questione senza che questa fosse subordinata all’adozione di tali misure tecnologiche. Tale azione approdava dinanzi alla Corte Suprema tedesca la quale rinviava alla CGUE la questione se l’incorporazione, mediante “framing” di un’opera disponibile su un sito internet liberamente accessibile con il consenso del titolare del diritto su siti di terze parti costituisse una comunicazione al pubblico dell’opera, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, in caso di aggiramento delle misure di protezione contro il “framing” che il titolare del diritto ha adottato o ha fatto adottare.

Collegamenti ipertestuali e comunicazione al pubblico
L’avvocato generale pone l’accento sulla questione se l’opera in parola appaia sul sito internet incorporante come “parte integrante” o se esista effettivamente un reindirizzamento ad un sito esterno. L’analisi condotta dall’avvocato generale è incentrata sul fatto se il l’utilizzo di un collegamento ipertestuale in generale, effettuato da un sito di terze parti ad un’opera altrui, costituisca (o meno) una comunicazione al pubblico ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, vale a dire se l’inserimento di tale link rientri nel diritto esclusivo del titolare dei diritti d’autore su detta opera. Sulla base di un’analisi critica della giurisprudenza della Corte, l’inserimento di link ipertestuali integrerebbe a tutti gli effetti un “atto di comunicazione” ma non necessariamente un “atto di comunicazione al pubblico”.
Occorrerebbe stabilire se si tratti di un pubblico al quale l’opera era già stata resa disponibile dall’titolare del diritto ovvero di un “pubblico nuovo”. In questo secondo caso il collegamento ipertestuale (qualora non autorizzato dal titolare) rappresenterebbe una violazione dei diritti esclusivi dell’autore soprattutto in casi in cui il collegamento ipertestuale consentisse di eludere le misure tecnologiche restrittive all’accesso dell’opera (cfr. causa C‑466/12, sentenza del 13 febbraio 2014, caso Svensson). Tale statuizione è stata confermata nella giurisprudenza successiva in caso di collegamenti attuati tramite “framing”, aggiungendo che lo scopo di lucro e la conoscenza (o conoscibilità) dell’elusione rappresentassero indici per determinarne l’illiceità dell’atto di comunicazione (cfr. causa C‑348/13, ordinanza del 21 ottobre 2014, caso BestWater e causa C‑160/15, sentenza dell’8 settembre 2016, caso GS Media).
A detta dell’avvocato generale dall’elaborazione della più recente giurisprudenza della Corte deriverebbe che nell’autorizzare la messa a disposizione del pubblico della sua opera su una pagina Internet, liberamente accessibile, il titolare dei diritti d’autore prende in considerazione tutto il pubblico che teoricamente può accedere a tale pagina Internet. È quindi incluso anche il pubblico che ne accede mediante collegamenti ipertestuali. Pertanto, tali link, pur costituendo atti di comunicazione, in quanto danno accesso diretto all’opera, sono coperti dall’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore rilasciata al momento della prima messa a disposizione. Non ricorre in tale caso l’elemento del “pubblico nuovo”.

Inline linking e framing
Nel caso dell’inline linking, nella definizione dell’avvocato generale, l’opera è automaticamente incorporata nella pagina internet di terze parti, apparendo senza che l’utente debba cliccare sul link in questione, modificando potenzialmente il pubblico originariamente previsto dal titolare dell’opera originaria messa a disposizione del pubblico. Mentre nel framing tale automatismo potrebbe non esserci e comunque l’utente (forse quello più esperto) avrebbe in ogni caso conoscenza di essere reindirizzato in un diverso sito da quello originariamente ricercato. L’avvocato generale ribadisce nella sua motivazione che la differenza tecnica tra inline linking e framing non è comunque sufficientemente chiara da poter fungere come criterio: importanza assume, invece, la questione se, per visualizzare un contenuto, sia necessaria un’azione dell’utente o meno.

Visualizzazione automatica e l’azione dell’utente
Riportando la diversità tra automatismo, da un lato, e l’azione dell’utente dall’altro nella terminologia tradizionale della Corte che distingue tra “pubblico nuovo” e pubblico al quale il titolare dei diritti ha inteso di comunicare la sua opera, l’avvocato generale conclude come segue: il pubblico che non si accorge o non si può accorgere di un collegamento esterno dovrebbe essere considerato come “pubblico nuovo”. Diversamente, nel caso di un’azione dell’utente, come può avvenire anche nel caso del framing, il pubblico sarebbe da ritenere come originariamente destinatario dell’atto di comunicazione autorizzato.

Le misure di protezione
Rimane da chiarire se l’uso del framing nell’ambito di un sito che richiede un’azione dell’utente per la visualizzazione dell’opera protetta, non debba, anch’esso, essere considerato “comunicazione al pubblico” qualora si eludano misure di protezione contro il framing. Si potrebbe argomentare che anche in tale caso si avrebbe un “pubblico nuovo” non tenuto in considerazione dal titolare dei diritti al momento della prima comunicazione. Tuttavia, rigettando tale approccio, l’avvocato generale sottolinea che tale circostanza introdurrebbe un principio pericoloso in quanto l’applicazione delle misure di protezione diventerebbe una condizione preliminare per la tutela giuridica conferita dal diritto d’autore.

Alessandro Bura


E-COMMERCE: AMAZON RITENUTA RESPONSABILE PER I DANNI CAUSATI DA PRODOTTO DIFETTOSO VENDUTO SULLA PROPRIA PIATTAFORMA ONLINE

09/09/2020

Con la storica decisione Cal. Ct. App., 4th Dist., No. D075738 – Bolger vs Amazon.com LLC (consultabile integralmente al seguente link: https://law.justia.com/cases/california/court-of-appeal/2020/d075738.html), in data 13 agosto 2020 la Quarta Sezione della Corte d’Appello del Distretto dello Stato della California ha per la prima volta affermato che l’azienda di e-commerce è responsabile dei difetti e degli eventuali danni causati dai prodotti venduti sulla propria piattaforma.

 

IL CASO
La vicenda trae origine dall’acquisto sulla piattaforma online Amazon, effettuato dalla Signora Angela Bolger, di una batteria di ricambio per un computer portatile. L’ordine in questione è stato commissionato al venditore Lenoge Technology (HK) Ltd e preso in carico da Amazon stessa, la quale ha provveduto alla gestione, elaborazione e finalizzazione della consegna presso l’acquirente. Alcuni mesi dopo l’acquisto, la batteria si è rivelata difettosa generando un’inaspettata esplosione che ha causato serie lesioni sul corpo della donna. Quest’ultima ha agito in giudizio citando Amazon e il terzo venditore Lenoge – rimasto contumace – al fine di chiedere la restituzione della somma pagata per l’acquisto del prodotto e un cospicuo risarcimento per il danno subito. Nel corso del giudizio di primo grado i Giudici statunitensi hanno accolto le difese di Amazon, sottolineando come l’azienda costituisca un semplice “marketplace online” che tuttavia non produce, distribuisce o commercializza direttamente il prodotto in questione. Di conseguenza, proseguivano i Giudici, nulla può essere alle stesse imputato in relazione alla difettosità del prodotto. Al giudizio di primo grado ha fatto seguito il ricorso in appello, nell’ambito del quale la decisione iniziale veniva completamente ribaltata sulla base di una motivazione – al momento unica nel panorama giuridico globale – che individua una chiara responsabilità oggettiva anche nei confronti della piattaforma di e-commerce.

IL RAGIONAMENTO LOGICO-GIURIDICO DELLA CORTE
A differenza di quanto affermato in primo grado, nella sentenza della Corte di Appello statunitense Amazon viene identificata come una vera e propria figura di intermediazione tra il terzo venditore da un lato (Lenoge Technology) e l’acquirente finale dall’altro (Sig.ra Bolger). Di fatto viene evidenziata l’importanza di Amazon all’interno della catena di distribuzione del prodotto, al di là della mera qualificazione terminologica che possa essere alle stesse attribuita quale semplice “intermediario”, “facilitatore” o vero e proprio “distributore”. Gli elementi salienti che caratterizzano il ragionamento logico-giuridico sviluppato nell’ambito del procedimento di secondo grado riguardano in primis il fatto che Amazon abbia autorizzato il venditore a proporre in vendita i propri prodotti all’interno della piattaforma di e-commerce, mettendo quindi a disposizione lo spazio digitale necessario per l’offerta al pubblico dei consumatori. Inoltre il prodotto in questione è rimasto depositato in uno dei c.d. “fulfillment center” di Amazon e successivamente spedito da quest’ultima all’acquirente. Di fatto, secondo quanto sostenuto dalla Corte d’Appello statunitense, sin dal momento in cui si è manifestata la volontà di procedere con l’acquisto del prodotto, l’acquirente non ha mai avuto un contatto diretto con il terzo venditore, interagendo semplicemente e unicamente con un unico soggetto, ossia la piattaforma di e-commerce. Inoltre, ulteriore elemento posto in evidenza dalla Corte riguarda il pagamento corrisposto per l’acquisto del prodotto: nello specifico viene sottolineato come la transazione in sé non abbia minimamente coinvolto il terzo produttore, il quale è rimasto totalmente ignaro di ciò che è stato acquistato fino a quando Amazon stessa non ha deciso di inoltrargli una comunicazione ufficiale. Sulla base di tali molteplici elementi la Corte d’Appello giunge ad affermare che Amazon è “parte integrante dell’intero complesso produttivo e di distribuzione che dovrebbe sostenere il corso delle lesioni derivanti da prodotti difettosi”[1]. Di fatto, agli occhi del consumatore, Amazon risulta come il vero e proprio venditore del prodotto, il vero protagonista del processo di vendita e, pertanto, trattandosi di un apporto fondamentale non può escludersi la piena responsabilità in caso di prodotto difettoso venduto sulla propria piattaforma di e-commerce.

LE POSSIBILI IMPLICAZIONI
La decisione in commento costituisce un vero e proprio “unicum” nel suo genere e potrebbe aprire la strada a decisioni analoghe sul tema della responsabilità civile del venditore online nei confronti del consumatore per vizio del prodotto venduto. A tal proposito va debitamente contestualizzato il fatto che tale decisione sia stata pronunciata in territorio statunitense, ove è particolarmente frequente e consolidato l’utilizzo della giurisprudenza per far fronte a carenze dal punto di vista interpretativo e per cercare di classificare dal punto di vista normativo le nuove figure e modalità commerciali sempre più utilizzate nel quotidiano.
Volendo cercare (per quanto possibile) di trasporre a livello europeo quanto sancito dalla Corte Californiana, sembrerebbe al momento poco plausibile l’accoglimento di un’interpretazione di tale portata innovativa. Al momento è fortemente consolidata, in dottrina e in giurisprudenza, la figura giuridica del c.d. “provider”, categoria all’interno della quale possono essere ricondotti i c.d. colossi marketplace quali, tra gli altri, Facebook, Ebay nonché lo stesso Amazon. Tali prestatori di servizi, ai sensi dell’art. 15 della Direttiva 2000/31 CE (c.d. “Direttiva sul commercio elettronico”), recepita nel nostro ordinamento mediante Decreto Legislativo n. 70 del 2003, non sono chiamati ad adempiere un “obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”, essendo tuttalpiù tenuti ad “informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o a comunicare informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi”. È evidente però che l’attuale regolamentazione sul punto, se osservata attentamente, non va ad intercettare la fattispecie trattata dai Giudici californiani nella sentenza qui presa in considerazione, la quale fa riferimento alla responsabilità civile da prodotto difettoso in capo al venditore e non al compimento di attività illecite come invece riporta il dettato normativo. Ciò lascia indubbiamente intendere la portata innovativa di quanto statuito dalla Corte d’Appello californiana, che potrebbe condurre all’individuazione di una nuova figura giuridica anche in territorio europeo, del tutto differente rispetto alla semplice nozione di “provider” e in grado di regolare in modo completo il rapporto che sempre più spesso ormai sorge tra il semplice utente-acquirente da un lato e i grandi marketplace dall’altro, veri e propri protagonisti attivi nei processi di vendita dei prodotti offerti. In ogni caso, in attesa di conoscere se vi possa essere, nei fatti, una vera e propria evoluzione normativa in tal senso, è impensabile che una tale evoluzione possa essere accolta oltreoceano e introdotta a livello normativo senza l’intervento fondamentale del legislatore europeo.

[1] Sul punto si veda il testo originale della decisione, in cui si afferma che “Amazon is an integral part of the overall producing and marketing enterprise that should bear the cost of injuries resulting from defective products.” (Vandermark, 61 Cal.2d at p. 262).

Paolo Rovera