E-COMMERCE: AMAZON RITENUTA RESPONSABILE PER I DANNI CAUSATI DA PRODOTTO DIFETTOSO VENDUTO SULLA PROPRIA PIATTAFORMA ONLINE

09/09/2020

Con la storica decisione Cal. Ct. App., 4th Dist., No. D075738 – Bolger vs Amazon.com LLC (consultabile integralmente al seguente link: https://law.justia.com/cases/california/court-of-appeal/2020/d075738.html), in data 13 agosto 2020 la Quarta Sezione della Corte d’Appello del Distretto dello Stato della California ha per la prima volta affermato che l’azienda di e-commerce è responsabile dei difetti e degli eventuali danni causati dai prodotti venduti sulla propria piattaforma.

 

IL CASO
La vicenda trae origine dall’acquisto sulla piattaforma online Amazon, effettuato dalla Signora Angela Bolger, di una batteria di ricambio per un computer portatile. L’ordine in questione è stato commissionato al venditore Lenoge Technology (HK) Ltd e preso in carico da Amazon stessa, la quale ha provveduto alla gestione, elaborazione e finalizzazione della consegna presso l’acquirente. Alcuni mesi dopo l’acquisto, la batteria si è rivelata difettosa generando un’inaspettata esplosione che ha causato serie lesioni sul corpo della donna. Quest’ultima ha agito in giudizio citando Amazon e il terzo venditore Lenoge – rimasto contumace – al fine di chiedere la restituzione della somma pagata per l’acquisto del prodotto e un cospicuo risarcimento per il danno subito. Nel corso del giudizio di primo grado i Giudici statunitensi hanno accolto le difese di Amazon, sottolineando come l’azienda costituisca un semplice “marketplace online” che tuttavia non produce, distribuisce o commercializza direttamente il prodotto in questione. Di conseguenza, proseguivano i Giudici, nulla può essere alle stesse imputato in relazione alla difettosità del prodotto. Al giudizio di primo grado ha fatto seguito il ricorso in appello, nell’ambito del quale la decisione iniziale veniva completamente ribaltata sulla base di una motivazione – al momento unica nel panorama giuridico globale – che individua una chiara responsabilità oggettiva anche nei confronti della piattaforma di e-commerce.

IL RAGIONAMENTO LOGICO-GIURIDICO DELLA CORTE
A differenza di quanto affermato in primo grado, nella sentenza della Corte di Appello statunitense Amazon viene identificata come una vera e propria figura di intermediazione tra il terzo venditore da un lato (Lenoge Technology) e l’acquirente finale dall’altro (Sig.ra Bolger). Di fatto viene evidenziata l’importanza di Amazon all’interno della catena di distribuzione del prodotto, al di là della mera qualificazione terminologica che possa essere alle stesse attribuita quale semplice “intermediario”, “facilitatore” o vero e proprio “distributore”. Gli elementi salienti che caratterizzano il ragionamento logico-giuridico sviluppato nell’ambito del procedimento di secondo grado riguardano in primis il fatto che Amazon abbia autorizzato il venditore a proporre in vendita i propri prodotti all’interno della piattaforma di e-commerce, mettendo quindi a disposizione lo spazio digitale necessario per l’offerta al pubblico dei consumatori. Inoltre il prodotto in questione è rimasto depositato in uno dei c.d. “fulfillment center” di Amazon e successivamente spedito da quest’ultima all’acquirente. Di fatto, secondo quanto sostenuto dalla Corte d’Appello statunitense, sin dal momento in cui si è manifestata la volontà di procedere con l’acquisto del prodotto, l’acquirente non ha mai avuto un contatto diretto con il terzo venditore, interagendo semplicemente e unicamente con un unico soggetto, ossia la piattaforma di e-commerce. Inoltre, ulteriore elemento posto in evidenza dalla Corte riguarda il pagamento corrisposto per l’acquisto del prodotto: nello specifico viene sottolineato come la transazione in sé non abbia minimamente coinvolto il terzo produttore, il quale è rimasto totalmente ignaro di ciò che è stato acquistato fino a quando Amazon stessa non ha deciso di inoltrargli una comunicazione ufficiale. Sulla base di tali molteplici elementi la Corte d’Appello giunge ad affermare che Amazon è “parte integrante dell’intero complesso produttivo e di distribuzione che dovrebbe sostenere il corso delle lesioni derivanti da prodotti difettosi”[1]. Di fatto, agli occhi del consumatore, Amazon risulta come il vero e proprio venditore del prodotto, il vero protagonista del processo di vendita e, pertanto, trattandosi di un apporto fondamentale non può escludersi la piena responsabilità in caso di prodotto difettoso venduto sulla propria piattaforma di e-commerce.

LE POSSIBILI IMPLICAZIONI
La decisione in commento costituisce un vero e proprio “unicum” nel suo genere e potrebbe aprire la strada a decisioni analoghe sul tema della responsabilità civile del venditore online nei confronti del consumatore per vizio del prodotto venduto. A tal proposito va debitamente contestualizzato il fatto che tale decisione sia stata pronunciata in territorio statunitense, ove è particolarmente frequente e consolidato l’utilizzo della giurisprudenza per far fronte a carenze dal punto di vista interpretativo e per cercare di classificare dal punto di vista normativo le nuove figure e modalità commerciali sempre più utilizzate nel quotidiano.
Volendo cercare (per quanto possibile) di trasporre a livello europeo quanto sancito dalla Corte Californiana, sembrerebbe al momento poco plausibile l’accoglimento di un’interpretazione di tale portata innovativa. Al momento è fortemente consolidata, in dottrina e in giurisprudenza, la figura giuridica del c.d. “provider”, categoria all’interno della quale possono essere ricondotti i c.d. colossi marketplace quali, tra gli altri, Facebook, Ebay nonché lo stesso Amazon. Tali prestatori di servizi, ai sensi dell’art. 15 della Direttiva 2000/31 CE (c.d. “Direttiva sul commercio elettronico”), recepita nel nostro ordinamento mediante Decreto Legislativo n. 70 del 2003, non sono chiamati ad adempiere un “obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano, né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”, essendo tuttalpiù tenuti ad “informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o a comunicare informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi”. È evidente però che l’attuale regolamentazione sul punto, se osservata attentamente, non va ad intercettare la fattispecie trattata dai Giudici californiani nella sentenza qui presa in considerazione, la quale fa riferimento alla responsabilità civile da prodotto difettoso in capo al venditore e non al compimento di attività illecite come invece riporta il dettato normativo. Ciò lascia indubbiamente intendere la portata innovativa di quanto statuito dalla Corte d’Appello californiana, che potrebbe condurre all’individuazione di una nuova figura giuridica anche in territorio europeo, del tutto differente rispetto alla semplice nozione di “provider” e in grado di regolare in modo completo il rapporto che sempre più spesso ormai sorge tra il semplice utente-acquirente da un lato e i grandi marketplace dall’altro, veri e propri protagonisti attivi nei processi di vendita dei prodotti offerti. In ogni caso, in attesa di conoscere se vi possa essere, nei fatti, una vera e propria evoluzione normativa in tal senso, è impensabile che una tale evoluzione possa essere accolta oltreoceano e introdotta a livello normativo senza l’intervento fondamentale del legislatore europeo.

[1] Sul punto si veda il testo originale della decisione, in cui si afferma che “Amazon is an integral part of the overall producing and marketing enterprise that should bear the cost of injuries resulting from defective products.” (Vandermark, 61 Cal.2d at p. 262).

Paolo Rovera