C’E’ TUTELA PENALE PER LE BANCHE DI DATI SUI GENERIS? LA RECENTE OPINIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE.

04/02/2020

Con la sentenza n. 6734, pubblicata in data 12 febbraio 2019, la Corte di Cassazione penale si è pronunciata in merito ai requisiti per la tutela penale per le banche di date protette dal diritto sui generis.

 

Il fatto
Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione i dati contenuti in un noto sito concernente aste giudiziarie per beni immobili erano stati estratti e reimpiegati da parte di un diverso operatore, attivo nell’offerta al pubblico dei consumatori di servizi e consulenza finalizzata all’acquisto di immobili nelle aste giudiziarie, tramite pubblicazione su vari siti Internet. Il materiale consisteva in fotografie, planimetrie e schede, queste ultime create dal sito di aste giudiziarie, che riportavano le principali caratteristiche degli immobili soggetti a procedura esecutiva.

L’applicazione degli artt. 171-bis e 102-bis della L. n. 633/1941 ad opera del Tribunale del riesame
Il Tribunale di Lucca, adito in sede di riesame, aveva ritenuto che il comportamento sopra descritto fosse sanzionabile ex art. 171-bis della L. n. 633/1941.
Occorre premettere che tale norma punisce le condotte commesse in violazione degli artt. 64-quinquies e 64-sexies nonché degli artt. 102-bis e 102-ter della L. n. 633/1941. L’art. 64-quinquies prevede una serie di diritti esclusivi dell’autore della banca dati, qualora questa si qualifichi come opera dell’ingegno, ed in particolare i diritti di riproduzione, traduzione o adattamento, distribuzione al pubblico, presentazione, dimostrazione o comunicazione al pubblico, trasmissione con qualsiasi mezzo o con qualsiasi forma. Diversamente, gli artt. 102-bis e 102-ter conferisce al costitutore di una banca dati – anche non creativa – il diritto di vietare l’estrazione o il reimpiego di tutta o di parte sostanziale della banca di dati, qualora il costitutore abbia sostenuto un investimento rilevante nella costituzione della banca di dati, di tipo qualitativo o quantitativo.
Nel caso di specie, il Tribunale del riesame aveva ritenuto che la condotta di ripubblicazione dei dati concernente le aste giudiziarie fosse sanzionabile ai sensi dell’art. 171-bis della L. n. 633/1941, poiché idonea ad integrare la fattispecie di estrazione o reimpiego, al fine di trarne profitto, della totalità o di parti sostanziali del contenuto di una banca dati. Pertanto, il Tribunale aveva confermato il sequestro preventivo del sito contenente i dati estratti e reimpiegati senza autorizzazione, mediante oscuramento dello stesso e mediante il blocco degli account riferibili al titolare del sito.
Il fumus del reato in contestazione aveva dunque trovato fondamento sulla tutelabilità della banca di dati costituita dai dati raccolti presso gli uffici giudiziari ed organizzati in via esclusiva, attraverso l’attività prestata dalla parte offesa dal reato. La circostanza che l’attività in questione fosse complessa, e quindi richiedesse un investimento rilevante, aveva infatti fatto in modo che alla medesima parte offesa venisse attribuita la qualifica di costitutore di una banca dati, in conformità a precedenti pronunce di autorevole giurisprudenza di merito (1). Secondo il Tribunale del riesame l’estrazione dei dati contenuti nelle schede informative realizzate dalla parte offesa avrebbe inoltre compromesso l’efficienza dell’incarico pubblicitario alla stessa commissionato dall’Ente pubblico, riducendo il numero e la qualità degli accessi sul sito ufficiale, a fronte di un accesso non autorizzato e perciò suscettibile di arrecare un pregiudizio ingiustificato.

L’opinione della Corte di Cassazione
L’imputato contestava la qualificazione della parte offesa come costitutore di banche dati. Secondo l’impugnazione il sito della parte offesa costituirebbe unicamente una forma di pubblicità primaria ed obbligatoria, in base all’art. 490 c.p.c. In particolare, si rilevava che la parte offesa non sarebbe l’autore dei dati di natura pubblica pubblicati sul proprio sito, ma unicamente il soggetto incaricato alla pubblicazione di dati già presenti sul Portale del Ministero della Giustizia (ad esempio, dell’ordinanza del G.E., della relazione di stima e dell’avviso di vendita del professionista all’uopo delegato) e “comunque privo di qualunque diritto di esclusiva”. Da tale argomento, conseguirebbe il difetto di legittimazione ad invocare la tutela prevista dalla Legge sul diritto di autore.

Il requisito della creatività dell’opera secondo la Corte di Cassazione
La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso proposto dall’imputato del reato, affermando che gli archivi (elettronici e cartacei) non possono essere qualificati come opere dell’ingegno, qualora in essi non sia rintracciabile un sufficiente gradiente di creatività, da individuarsi nelle attività di selezione e/o di disposizione dei dati. Secondo la Corte esistono due diverse nozioni di creatività, “una oggettiva tendente a ritenere che sia creativa un’opera oggettivamente caratterizzata da elementi originali ed innovativi tali da distinguerla da qualsiasi altra opera preesistente, ed una soggettiva secondo la quale dovrebbe ritenersi creativa l’opera che presenti l’impronta personale del suo autore”. Per la Suprema Corte, in continuità con il proprio orientamento (2) e conformemente alla giurisprudenza sovranazionale (3), deve ritenersi preferibile la nozione soggettiva, poiché “l’oggetto della tutela non è necessariamente l’idea in sè, la quale può essere alla base di diverse opere dell’ingegno, bensì la forma particolare che assume a prescindere dalla sua novità e dal valore intrinseco del suo contenuto”. Sulla scorta di ciò, la Suprema Corte ha escluso che la banca dati della persona offesa fosse dotata di quel gradiente di creatività necessario a far assurgere la medesima alla qualifica di opera dell’ingegno, da momento che non vi era un’attività creativa rintracciabile nell’operazione di selezione e/o di disposizione dei dati.
Come già anticipato, le banche dati non creative possono accedere in sede civile alla tutela – definita dalla Corte stessa quale “binario parallelo di protezione” rispetto a quella tradizionale in materia di banca dati – prevista dagli artt. 102-bis e seguenti della L. n. 633 del 1941. La ratio della norma è quella di offrire una tutela al “costitutore”, ovvero al soggetto che abbia sostenuto costi non irrilevanti per la costituzione della banca dati, indipendentemente dalla tutelabilità di quest’ultima sotto il profilo del diritto d’autore. Nel caso in esame, la Corte ha precisato che “tale diritto è indipendente da quelli dell’eventuale diritto d’autore esistente sulla banca dati […] ed è totalmente svincolato dal carattere creativo o originale della stessa”.
Secondo la Corte, tuttavia, l’individuazione della parte offesa come costitutore di una banca dati, e perciò fruitore della tutela sui generis riconosciutagli dall’art. 102 bis, “non equivale in nessun modo a conferire al costitutore la tutela tipica della legge sul diritto di autore, comprensiva sia degli strumenti accordati in campo civilistico in relazione al diritto morale e a quello di utilizzazione economica, sia delle fattispecie criminose previste in campo penale dagli artt. 171 ss…”. A parere della Corte di Cassazione, quindi, la creatività costituirebbe un requisito indispensabile per il riconoscimento di una tutela penale a tutte le opere dell’ingegno e dunque non solo per le banche dati creative, ma anche per quelle non creative, con la conseguenza che il costitutore di una banca dati sui generis non potrebbe godere della tutela penale della legge sul diritto di autore.

Conclusioni
Dalla lettura adottata dalla Cassazione in merito al requisito della creatività in materia di banca dati, discende una netta separazione tra la tutela sui generis di cui fruisce il costitutore e la tutela tipica apprestata dal diritto d’autore alle banche dati creative. Pertanto, la protezione comprensiva delle fattispecie criminose di cui agli artt. 171 ss. della L. n. 633/1941 non è, secondo la Suprema Corte, suscettibile di essere applicata alle banche dati che difettino del requisito della creatività. Tale conclusione appare tuttavia in contrasto con la lettera dell’art. 171-bis della L. n. 633/1941. Infatti, tale disposizione disciplina in sede penale sia le violazioni del diritto d’autore (e dunque delle banche dati creative) sia le violazioni del diritto sui generis, come si ricava dalla semplice lettura dell’art. 171- bis, co. II. La norma, infatti, nel delimitare l’oggetto materiale del reato, opera un sostanziale rinvio in quanto punisce le condotte commesse tanto in violazione di quanto previsto dagli artt. 64-quinquies e 64-sexies, quanto le condotte commesse in violazione degli artt. 102-bis e 102-ter.

(1): In particolare, Trib. Roma, Sez. Specializzata in materia di Impresa, sent. n. 48121, 19 settembre 2013, in Foro Italiano 2014, 14, 11, 1, 3340, ove è stato ritenuto che: “Nel caso di specie dagli elementi acquisiti in atti deve ritenersi integrata la fattispecie costitutiva del diritto connesso ex art. 102 bis l.d.a., Ed invero la Società ricorrente, quale soggetto operante nel settore dei servizi pubblicitari per le aste giudiziarie, svolge un’attività complessa, articolata in più fasi di lavorazione rese necessarie anche dall’obbligo di rispettare i criteri e gli standards stabiliti da fonti normative di rango primario e secondario. […]. La complessità dell’attività sopra descritta richiede senz’altro la predisposizione di adeguati apparati strumentali e di personale qualificato e quindi presuppone rilevanti investimenti in termini di tempo, forza lavoro e risorse finanziarie”;
(2): Cfr. Cass. civ. sez. I, 11 agosto 2004 n. 15496 in banca dati online Pluris;
(3): Cfr. Corte di Giustizia UE, sentenza dell’1.3.2012, causa C-604/10 in AIDA 2012, 1464.

Valentina Cerrigone e Alessandro Bura


PA DIGITALE: IL CONSIGLIO DI STATO LEGITTIMA L’UTILIZZO DELL’ALGORITMO CONOSCIBILE E COMPRENSIBILE IN AMBITO AMMINISTRATIVO

28/01/2020

Con la sentenza n. 8474/2019, il Consiglio di Stato ha riconosciuto la legittimità delle procedure automatizzate amministrative e ne ha indicato i criteri e i limiti. Inoltre, vincolando la legittimità dell’utilizzo di algoritmi nell’ambito di procedure amministrative alla piena conoscibilità e trasparenza del procedimento automatizzato, la sentenza ha aperto un nuovo scenario nei rapporti tra PA e imprese titolari dei diritti di proprietà intellettuale sui software.

 

Il Consiglio di Stato è ritornato sulla questione della legittimità delle decisioni algoritmiche nella pubblica amministrazione con la sentenza n. 8474/2019 depositata lo scorso 13 dicembre 2019. L’organo di giustizia amministrativa ha confermato l’impostazione già assunta nella precedente sentenza n. 2270 di aprile 2019, ampliando il proprio iter argomentativo ed estendendo per la prima volta la legittimità dell’utilizzo di algoritmi anche all’attività discrezionale della Pubblica amministrazione, purché a determinate condizioni.

Il fatto
Il caso di specie riguardava l’adozione da parte del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR) di un piano straordinario di assunzione (di cui alla L. n. 107/2015) demandato ad un algoritmo, per effetto del quale venivano calcolate le assegnazioni e i trasferimenti degli insegnanti considerati idonei.
L’esito della procedura nazionale di mobilità, attuata con ordinanza ministeriale n. 241/2016, veniva impugnato dai docenti immessi in ruolo nella c.d. fase C del piano straordinario suddetto. Nello specifico, i ricorrenti contestavano l’esito della procedura svolta sulla base di un algoritmo sconosciuto, per effetto del quale venivano disposti i trasferimenti senza tener conto delle preferenze espresse dagli insegnati. Tale procedura veniva in primo grado dichiarata illegittima dal TAR del Lazio, perché considerata in evidente contrasto con il principio di strumentalità del ricorso all’informatica nelle procedure amministrative.
La sentenza veniva impugnata dal MIUR davanti al Consiglio di Stato, che confermava la decisione del TAR sulla base di una diversa motivazione.

La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato ha ribadito la legittimità dell’utilizzo di algoritmi e software nell’ambito del procedimento amministrativo e ne ha indicato in maniera dettagliata i limiti e i criteri.
Le potenzialità della rivoluzione digitale – afferma il CDS – devono essere sfruttate per assicurare l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa, anche alla luce del principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 della Costituzione. Tali esigenze devono, tuttavia, essere bilanciate con gli altri principi fondamentali del procedimento amministrativo, tra cui il principio di trasparenza.
Tra gli elementi di garanzia per il legittimo utilizzo dell’algoritmo in ambito amministrativo, il Consiglio di Stato enuncia anche:
a) la piena conoscibilità dell’algoritmo utilizzato e dei criteri applicati;
b) l’imputabilità della decisione all’organo della PA titolare del potere, il quale deve svolgere la necessaria verifica di logicità e legittimità della scelta e degli esiti demandati all’algoritmo.
La sentenza estende, dunque, la responsabilità della PA alla verifica della corrispondenza dall’algoritmo alla regola giuridica sottostante e del metodo utilizzato. Al fine di poter verificare che i criteri, i presupposti e gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge, l’algoritmo deve essere conoscibile e comprensibile in tutti gli aspetti: dagli autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti.
Nel contenzioso in esame – conclude il CDS – l’amministrazione si era limitata a postulare una coincidenza fra legalità e operazione algoritmica, che deve invece essere sempre dimostrata sul piano tecnico e in relazione al caso concreto, costituendo l’impossibilità di comprendere il funzionamento dell’algoritmo un vizio tale da inficiare la procedura.

Un nuovo scenario per i titolari dei diritti di proprietà intellettuale sui software
Dalla decisione in esame deriva che i rapporti tra fornitori di software e organi della PA dovranno ispirarsi a principi di trasparenza, senza che le imprese produttrici possano far valere alcuna riservatezza sull’algoritmo. Sul punto, la sentenza è chiara nell’affermare che: “non può assumere rilievo l’invocata riservatezza delle imprese produttrici dei meccanismi informatici utilizzati i quali, ponendo al servizio del potere autoritativo tali strumenti, all’evidenza ne accettano le relative conseguenze in termini di necessaria trasparenza”.
In continuità con tale scenario, si segnala che in un più recente caso (analogo a quello esaminato) il Consiglio di Stato ha, altresì, affermato che il titolare di segreti commerciali o tecnici assume la parte di controinteressato ex art. 22 comma 1 lett. c) L. 7 agosto 1990 n. 241, in quanto titolare di un interesse uguale e contrario a coloro che chiedono l’accesso all’algoritmo di calcolo al fine di verificarne la correttezza del funzionamento. La posizione di controinteresse è giustificata in quanto, nell’ipotesi descritta, il titolare dei diritti di proprietà industriale e intellettuale sul software subirebbe un pregiudizio nella propria sfera giuridica dall’accoglimento dell’istanza di accesso all’algoritmo (cfr Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 2 gennaio 2020 n. 30, in banca dati online De Jure).
Le citate sentenze aprono, dunque, scenari nuovi per le imprese titolari dei diritti di proprietà intellettuale sui software e pongono una serie di questioni sulle misure che potranno garantire la riservatezza dei segreti industriali nell’ambito delle procedure amministrative. Il fatto che l’algoritmo debba essere conoscibile e comprensibile non comporta, infatti, la perdita del diritto d’autore da parte del titolare. Più complesso è invece il tema del know-how, in cui l’aspetto da tutelare riguarda proprio la segretezza.

Camilla Macrì e Luigi Goglia


FACEBOOK NON È GRATIS: IL TAR DEL LAZIO AFFERMA IL VALORE NEGOZIALE DEI DATI PERSONALI DEGLI UTENTI DEL SOCIAL NETWORK

24/01/2020

Con sentenza del 10 gennaio 2020 n. 261, la Prima Sezione del Tar per il Lazio, ha parzialmente confermato la sanzione di dieci milioni di euro irrogata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a Facebook per avere adottato una pratica commerciale ritenuta scorretta, dimezzandola a cinque milioni di euro e riconoscendo il valore negoziale dei dati personali, il cui sfruttamento economico costituisce controprestazione del servizio offerto dal social network.

 

La vicenda
Il Tribunale amministrativo si è pronunciato sul ricorso presentato da Facebook Inc. con il quale veniva impugnato un provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che, nel dicembre 2018, aveva sanzionato in solido le società Facebook Ireland Ltd. e la sua controllante Facebook Inc. per violazione del Codice del Consumo, irrogando due multe da cinque milioni di euro ciascuna per le due condotte censurate.
Oggetto della decisione dell’AGCM due condotte ritenute, rispettivamente, ingannevoli e aggressive nei confronti dei consumatori.
La prima condotta censurata riguardava il celebre slogan “Iscriviti. È gratis e lo sarà sempre” presente all’interno della pagina di accesso e registrazione di Facebook, che enfatizzava la natura gratuita del servizio senza però informare adeguatamente gli utenti dell’attività di raccolta ed utilizzo, a fini commerciali, dei dati personali da loro forniti. Tale pratica veniva perciò ritenuta ingannevole, in quanto non in grado di permettere una scelta consapevole del consumatore, il quale non veniva edotto con sufficiente immediatezza e chiarezza delle finalità remunerative sottostanti la fornitura del servizio di social network.
La seconda condotta sanzionata dall’AGCM concerneva il meccanismo di trasmissione dei dati personali generati dagli utenti dalla piattaforma ad app e siti web terzi e viceversa. Secondo l’Autorità, Facebook attuava una pratica aggressiva di indebito condizionamento dei fruitori del servizio alla trasmissione dei propri dati da Facebook a siti web o app di terzi, e viceversa, per finalità commerciali, tramite l’applicazione di un meccanismo di preselezione del più ampio consenso alla condivisione di dati. Gli utenti, in tal modo, sarebbero inconsapevolmente influenzati al mantenimento della scelta pre-impostata da Facebook.

La decisione del TAR
Il TAR, affrontando preliminarmente la doglianza di Facebook sull’inapplicabilità dell’istituto della “parental liability” al caso di specie, respinge tale motivo di ricorso ritenendo legittima l’imputazione della controllante Facebook Inc. – in solido con la controllata Facebook Ireland Ltd. – per le pratiche commerciali scorrette messe in atto da quest’ultima, non fondando esclusivamente la responsabilità della controllante sul concetto di “parental liability”, bensì rilevando una sua omissione di vigilanza sulle condotte operate dalla società controllata e attestando la condivisione del beneficio degli effetti prodotti dalle pratiche commerciali scorrette.
Viene inoltre confermata la competenza del AGCM in materia di dati personali: sono respinte le difese di parte ricorrente che lamentava la carenza di potere dell’Antitrust per ingerenza in un campo di esclusiva competenza dell’Autorità Garante della Privacy, in virtù dell’asserita appartenenza delle condotte censurate alla materia del trattamento dei dati personali, con conseguente unica applicabilità del “Regolamento Privacy” in base al principio di specialità.
Il TAR, argomentando le ragioni fondanti la competenza dell’AGCM, ha l’occasione di affermare il potenziale valore negoziale dei dati personali, non più solamente espressione di un diritto fondamentale della personalità dell’individuo, ma parametro di indagine all’interno del rapporto commerciale tra consumatore e prestatore di servizi.
Emergendo perciò due differenti profili di valutazione dei dati personali, non sussiste incompatibilità tra le previsioni di tutela della privacy e quelle in materia di protezione del consumatore, che si pongono invece in termini di complementarietà, poiché riguardanti condotte differenti: le due discipline infatti, in relazione alle rispettive finalità di tutela, impongono differenti obblighi informativi, funzionali, da un lato, al corretto trattamento dei dati personali ai fini dell’utilizzo della piattaforma e, dall’altro, alla trasparenza dell’informazione circa il valore economico dei dati personali e le finalità lucrative perseguite attraverso il loro sfruttamento. Con tale specificazione, il TAR esclude anche il pericolo paventato da Facebook circa il rischio di un effetto plurisanzionatorio della medesima condotta.
Con riguardo alla seconda condotta presa in considerazione dall’AGCM, riguardante il meccanismo di trasmissione dei dati personali degli utenti a parti terze, il Tribunale amministrativo ha annullato la sanzione da 5 milioni di euro, ritenendo illegittimo il provvedimento dell’Autorità in ragione della mancata prova dell’esistenza di una condotta idonea a condizionare le scelte del consumatore.

La patrimonializzazione dei dati personali
La pronuncia del TAR riveste importanza notevole poiché, in maniera inedita, esplora la portata degli interessi economici dei consumatori con riguardo alla divulgazione e utilizzo dei propri dati personali.
Se storicamente, infatti, la tutela dei dati personali è stata elaborata in considerazione della loro qualità di espressione di un diritto fondamentale della personalità dell’individuo, con conseguente previsione di forme di protezione non rinunciabili, come ad esempio il diritto di revoca del consenso, il TAR analizza adesso i dati personali nella loro qualità di beni disponibili in senso negoziale, suscettibili di sfruttamento economico, potenziale oggetto di compravendita tra operatori economici e soggetti interessati: il contenuto dei dati personali forniti dal consumatore e la loro conseguente profilazione rappresenterebbero la puntuale controprestazione del consumatore alla fornitura del servizio.
La stima dei dati personali dal punto di vista patrimoniale impone di conseguenza agli operatori economici il rispetto degli obblighi di trasparenza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla legislazione a tutela del consumatore. L’utente dovrà perciò essere reso edotto dello scambio di prestazioni sotteso all’adesione ad un contratto sinallagmatico, quale si rivela essere quello di fruizione del social network.

Alessia Asaro e Tankred Thiem


USO EFFETTIVO DEL MARCHIO COLLETTIVO: NUOVA IMPORTANTE PRONUNCIA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA

14/01/2020

Con la sentenza del 12 dicembre 2019, resa all’esito del giudizio C-143/19 (disponibile al link http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=221511&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=7995923), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”) ha chiarito che un marchio collettivo, riportato sugli imballaggi dei prodotti commercializzati dalle aziende affiliate all’associazione titolare del marchio, può essere considerato come “effettivamente utilizzato” sul territorio dell’Unione Europea anche con riferimento ai singoli prodotti contenuti nell’imballaggio, non riportanti il suddetto marchio collettivo.

 

L’antefatto.
In data 12 giugno 1996 la società tedesca DGP GmbH presentava avanti l’EUIPO domanda per la registrazione come marchio collettivo del segno figurativo “rappresentazione di un cerchio con due frecce”, per i prodotti delle classi 1-34 e i servizi delle classi 35, 39, 40 e 42 della Classificazione di Nizza. Secondo il regolamento d’uso allegato alla domanda di marchio secondo l’art. 67 Reg. UE n. 207/2009 (ora sostituito dall’art. 75 Reg. UE n. 1001/2017), il marchio in questione era ideato “al fine di consentire ai consumatori e ai commercianti di riconoscere gli imballaggi che fanno parte del sistema di riciclaggio della DGP e per i quali è stato istituito un contributo al finanziamento del sistema, nonché i prodotti confezionati in tal modo, e di distinguerli dagli altri imballaggi e prodotti”.

A seguito della registrazione del marchio, in data 2 novembre 2012 una società di diritto slovacco presentava domanda di decadenza parziale per non uso del marchio. Con decisione del 26 maggio 2015, la Commissione Ricorsi dell’EUIPO accoglieva la domanda e dichiarava decaduto il marchio collettivo con riferimento a tutti i prodotti per i quali era stato registrato, con la sola eccezione dei prodotti consistenti in imballaggi.

La decadenza veniva confermata dalla Commissione di Ricorso dell’EUIPO, prima, e dal Tribunale dell’Unione Europea, dopo. Quest’ultimo, in particolare, con sentenza del 12 settembre 2018 (T-253/17) affermava che nel caso di specie il titolare del marchio collettivo aveva provato l’uso effettivo del segno solo in relazione agli imballaggi dei prodotti, e non anche ai prodotti stessi. Aggiungeva che il marchio in questione avrebbe indicato solamente che gli imballaggi sui cui era impresso il segno avrebbero potuto essere raccolti e valorizzati secondo un determinato sistema di riciclaggio, ma questo non avrebbe garantito alcuna indicazione d’origine con riferimento ai singoli prodotti. Per tale ragione il marchio collettivo veniva dichiarato parzialmente decaduto. Il Tribunale concludeva dunque che la decisione dell’EUIPO con cui era stato dichiarato decaduto il marchio collettivo di DGP sarebbe stata immune da censure sul punto.

La decisione della Corte.
Con la sentenza in commento la CGUE, ribaltando le precedenti pronunce, ha annullato tanto la sentenza del Tribunale UE quanto la decisione della Commissione Ricorsi dell’EUIPO.

L’iter argomentativo della Corte parte dal presupposto che il principio di diritto secondo il quale un marchio dell’Unione Europea è oggetto di uso effettivo “quando viene utilizzato conformemente alla sua funzione essenziale, al fine di creare o di conservare uno sbocco per i prodotti e servizi per i quali è registrato”, si applica pacificamente anche ai marchi collettivi, la cui funzione essenziale – come noto, a differenza dei marchi individuali – è quella di distinguere i prodotti e i servizi dei soggetti affiliati all’associazione che ne è titolare da quelli di altre imprese.

Sulla base di tale premessa i giudici comunitari hanno censurato la sentenza del Tribunale UE nella parte in cui ha semplicemente dato atto che DGP non fosse riuscita a dimostrare che il marchio in questione mirasse a creare o conservare uno sbocco anche per i prodotti controversi (e non solo per gli imballaggi contenenti i prodotti), senza avere prima esaminato se il marchio fosse “effettivamente” utilizzato anche sul mercato dei prodotti o dei servizi interessati. Esame che, secondo la Corte, avrebbe dovuto essere realizzato valutando in particolare gli usi considerati giustificati, nel settore economico interessato, per conservare o creare quote di mercato per i prodotti o servizi contrassegnati dal marchio, la natura di tali prodotti e servizi, le caratteristiche del mercato di riferimento, l’ampiezza e la frequenza dell’uso del marchio.

Nel caso di specie, dunque, il Tribunale non avrebbe dovuto arrestare il proprio giudizio sulla circostanza (considerata pacifica) che il consumatore, guardando il marchio collettivo in questione, avrebbe compreso che il sistema della DGP avrebbe riguardato la raccolta locale e il recupero degli imballaggi dei prodotti e non anche la raccolta o il recupero dei prodotti in sé. Ma avrebbe dovuto spingersi oltre, indagando altresì se l’indicazione al consumatore, al momento dell’immissione in commercio dei prodotti, della messa a disposizione di un simile sistema di raccolta locale e riciclaggio dei rifiuti di imballaggio, avrebbe potuto essere idonea a creare o conservare quote di mercato anche per taluni specifici prodotti.

Ed infatti – conclude la Corte – la natura di buona parte dei prodotti associati al marchio collettivo in questione, consistenti in beni di consumo quotidiano idonei a generare quotidianamente rifiuti di imballaggio, non esclude affatto (ed anzi probabilmente conferma) che l’indicazione sul loro imballaggio dell’affiliazione ad un simile sistema di raccolta locale e di trattamento ecologico dei rifiuti di imballaggio possa ben influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori e, conseguentemente, contribuire alla conservazione o alla creazione di quote di mercato relative ai prodotti. Il che è sufficiente a dimostrare l’uso effettivo del marchio collettivo, impeditivo della sua decadenza.

Giorgio Rapaccini e Alessandro Bura


LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA STABILISCE CHE LA FORNITURA AL PUBBLICO DI LIBRI ELETTRONICI (cd. e-books) COSTITUISCE “ATTO DI COMUNICAZIONE AL PUBBLICO”

08/01/2020

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza Tom Kabinet C-263/18 del 19 dicembre 2019, ha stabilito che la fornitura al pubblico, mediante download, di un libro elettronico per uso permanente costituisce un atto di “comunicazione al pubblico” ai sensi della direttiva 2001/29 sul Diritto d’Autore.

 

L’antefatto:
La Nederlands Uitgeversverbond (infra NUV) e la Groep Algemene Uitgeversle (infra GAV), associazioni di difesa degli interessi degli editori dei Paesi Bassi, presentavano un ricorso dinanzi al Tribunale dell’Aia chiedendo che venisse vietata alla società olandese “Tom Kabinet” la riproduzione e la messa a disposizione ai membri affiliati al proprio club di lettura di libri in formato elettronico su di un apposito sito internet della medesima società.
Tale richiesta veniva motivata sulla base della allegata violazione del diritto d’autore da parte della Tom Kabinet stessa, in quanto l’offerta di ebook di seconda mano per mezzo di una piattaforma online ai membri di un club di lettura costituirebbe in realtà un atto di comunicazione al pubblico non autorizzato e, pertanto, in piena violazione dei diritti d’autore degli editori.

La decisione della Corte:
Con la decisione Tom Kabinet C-263/18 del 19 dicembre 2019, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto che la fornitura, attraverso la predisposizione al download, di un libro elettronico non può considerarsi ricompresa nel diritto di “distribuzione al pubblico” previsto ai sensi dell’art. 4, par. 1 della direttiva 2001/29. Tale attività deve invece essere considerata inclusa nella nozione di “comunicazione al pubblico”, di cui all’art. 3, par. 1 della medesima direttiva. Da qui deriverebbe la natura dell’inapplicabilità del principio dell’esaurimento, unicamente previsto per il diritto di distribuzione, ed escluso invece con riguardo al diritto di comunicazione al pubblico.
A supporto della propria statuizione la Corte sottolinea che il legislatore europeo, sulla base del Trattato sul diritto d’autore dell’Organizzazione Mondiale della proprietà intellettuale (OMPI) e sulla base dei lavori preparatori alla direttiva stessa, ha chiarito che il principio dell’esaurimento si applica soltanto alla distribuzione di opere tangibili, quali libri impressi su supporto materiale, escludendo del tutto le opere in formato elettronico. Queste ultime, infatti, essendo dematerializzate, non subiscono alcun deterioramento a seguito dell’uso prolungato e possono pertanto essere considerate come vere e proprie copie pari alle nuove, sul mercato secondario.

Il concetto di “comunicazione al pubblico”:
Nella sua pronuncia la Corte di Giustizia ha poi dedicato particolare attenzione al concetto di “comunicazione al pubblico”, sottolineando come esso vada inteso in senso lato, in quanto riguardante tutte le comunicazioni al pubblico non presente nel luogo in cui esse hanno origine e, pertanto, qualsiasi trasmissione o ritrasmissione di un’opera.
La Corte ha poi sottolineato come la semplice predisposizione al download di un’opera attraverso un apposito sito internet per ciascun utente registrato costituisca, di per sé, un vero e proprio atto di comunicazione, senza che sia necessario che il singolo utente proceda con l’effettivo download dell’opera.
Dal punto di vista sostanziale viene ribadito come l’atto in questione debba essere considerato incluso nella facoltà di “messa a disposizione del pubblico dell’opera”, come emerge chiaramente anche dalla relazione sulla proposta di direttiva 2001/29.
In aggiunta, nel caso di specie, la Corte ha dichiarato che attraverso la piattaforma gestita dalla Tom Kabinet erano molteplici gli utenti che potevano contemporaneamente o in successione avere accesso alla medesima opera. Ciò a ulteriore sostegno del fatto che la divulgazione posta in essere deve essere classificata come comunicazione effettiva al pubblico.
In conclusione, la Corte ha poi evidenziato come la messa a disposizione di un libro in formato elettronico (c.d. ebook) sia normalmente accompagnata da una licenza di utilizzo che autorizza la lettura da parte dell’utente che ha effettuato il download dell’opera.
Conseguentemente è implicito ritenere che la tipologia di comunicazione effettuata dalla società Tom Kabinet, indistintamente rivolta a tutti gli utenti registrati su un’apposita piattaforma di condivisione, si rivolga ad un pubblico completamente nuovo, non ricompreso tra quello originariamente considerato dai titolari del diritto d’autore, così come espressamente richiesto dalla nozione di “comunicazione al pubblico” delineata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Paolo Rovera