DIGITAL SERVICE PACKAGE

25/10/2022

L’UE ha approvato un “pacchetto di leggi sui servizi digitali”: il Digital Services Act e il Digital Markets Act che mirano a creare uno spazio digitale più sicuro, accessibile e competitivo.

 

Con l’adozione da parte del Parlamento Europeo del Digital Markets Act (DMA) e del Digital Service Act (DSA), lo scorso luglio si è concluso l’iter legislativo iniziato nel 2020 con la proposta del legislatore europeo di un progetto strategico nel settore digitale (anche definito “Digital Service Package”) approvato nel 2021 all’unanimità dagli Stati membri.

Tale pacchetto normativo ha l’obbiettivo di circoscrivere lo spazio di manovra dei colossi del settore digitale, anche detti “giganti dell’ecosistema digitale” (tra cui ad esempio Google, Apple, Facebook), e favorire nuovi spazi a piccoli e medi concorrenti.

Digital Market Act (DMA)- Regolamento EU 2022/1925

Il Regolamento 2022/1925 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 12 ottobre 2022 ed entrerà in vigore il primo novembre 2022.

Nei considerando del Regolamento è evidenziato il fatto che il mercato di riferimento si caratterizza, da un lato, per la presenza di piccole medie imprese in crescita che operano come piattaforme online, dall’altro lato, dalla presenza di poche grandi piattaforme che detengono da sole la maggior quota di marcato, esercitando di fatto una funzione di controllo dell’accesso, i c.d. “gatekeepers”. Le norme contenute nel DMA mirano quindi a garantire una concorrenza leale delle piattaforme digitali stabilendo obblighi e divieti in capo ai gatekeepers.

Innanzitutto, il DMA individua i criteri qualitativi e quantitativi sulla base dei quali è possibile stabilire se un’impresa debba essere considerata un “gatekeepers”. In sintesi, deve essere considerata tale un’impresa che fornisce servizi di piattaforma di base se “a) ha un impatto significativo sul mercato interno; b) fornisce un servizio di piattaforma di base che costituisce un punto di accesso (gateway) importante affinché gli utenti commerciali raggiungano gli utenti finali; e c) detiene una posizione consolidata e duratura, nell’ambito delle proprie attività, o è prevedibile che acquisisca siffatta posizione nel prossimo futuro”. Si presume che un’impresa soddisfi questi requisiti se ha fatturato annuo di almeno 7,5 miliardi di euro o se la sua capitalizzazione di mercato era di almeno 75 miliardi di euro e se fornisce lo stesso servizio di piattaforma di base in almeno tre Stati membri; se nell’ultimo esercizio finanziario annovera almeno 45 milioni di utenti finali mensili attivi e almeno 100mila utenti commerciali con sede in UE.

Il Regolamento prevede poi una serie di obblighi imposti ai gatekeepers elencati agli articoli 5,6 e 7. In particolare, questi dovranno garantire agli utenti il diritto di annullare l’abbonamento ai servizi di piattaforma di base a condizioni analoghe a quelle dell’abbonamento, non imporre software (come i browser web) per impostazione predefinita all’installazione del sistema operativo, garantire l’interoperabilità delle funzionalità di base dei loro servizi di messaggistica istantanea e informare la Commissione europea in merito alle acquisizioni e fusioni da essi realizzate.

Il Regolamento prevede poi poteri di indagine in capo alla Commissione Europea che potrà adottare un atto di esecuzione che specifica le misure che il gatekeepers interessato deve attuare per garantire un’osservanza effettiva degli obblighi di cui agli articoli 6 e 7.

Digital Service Act (DSA) – Proposta di Regolamento

Il 4 ottobre il Consiglio Europeo ha definitivamente approvato il DAS che entrerà in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e sarà direttamente applicabile in tutta l’UE dal 1° gennaio 2024.

L’atto introduce nuove norme in materia di trasparenza, obblighi informativi e accountability con lo scopo di riequilibrare i diritti e le responsabilità degli utenti, degli intermediari online e delle autorità pubbliche.

Si applica agli intermediari che offrono servizi dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta del destinatario, i c.d. servizi delle società dell’informazione. Gli obblighi previsti sono modellati tenendo conto delle diverse tipologie di sevizi offerte e delle dimensioni dell’operatore: le piattaforme online di grandi dimensioni saranno soggette a requisiti più rigorosi.

In particolare, saranno previsti obblighi di due diligence e procedure per la rimozione di contenuti illegali e per la tutela dei diritti fondamentali degli utenti online, come, ad esempio, un meccanismo che consentirà agli utenti di segnalare facilmente contenuti illegali; obblighi sulla tracciabilità degli utenti commerciali nei marcati online per aiutare ad indentificare venditori illegali.

Anche in questo caso viene attribuito alla Commissione Europea un potere di controllo sulle piattaforme online di grandi dimensioni.

Anna Colmegna


INVENTOR REMUNERATION (ITALY)

22/09/2022

Siamo lieti di condividere l’ultimo contributo dell’Avv. Simona Lavagnini, founding-partner, e dell’Avv. – Rechtsanwalt Tankred Thiem, partner di LGV, sulla rivista Practical Law Global riguardo agli obblighi dei datori di lavoro di remunerare i dipendenti-inventori per la creazione di invenzioni brevettabili in costanza di rapporti lavorativi.

Take a look!

Inventor Remuneration (Italy)

IL NUOVO REGISTRO PUBBLICO DELLE OPPOSIZIONI

3/08/2022

Il Registro pubblico delle opposizioni (“RPO” o “Registro”) è uno strumento che mira a rafforzare la posizione dei consumatori contro le pratiche commerciali aggressive degli operatori che svolgono attività di telemarketing. A partire dal 27 luglio 2022 è entrato in vigore il regolamento per il nuovo RPO che istituisce alcune importanti tutele nell’interesse degli utenti e obblighi nei confronti degli operatori.

 

Il RPO è una misura di contrasto al c.d. telemarketing aggressivo ed è un servizio pubblico messo a disposizione degli utenti per esprimere il proprio rifiuto a ricevere materiale cartaceo pubblicitario e telefonate promozionali.
Attraverso l’iscrizione al Registro, istituito con il DPR n. 178 del 2010, il consumatore esprime infatti il proprio dissenso alla ricezione di telefonate a fini commerciali o promozionali. Il servizio, attivo dal 2011 e del quale è competente il Ministero dello Sviluppo economico (“MISE”), è stato in seguito aggiornato con il DPR n. 149 del 2019 che ha ampliato l’ambito di applicazione del RPO anche alle comunicazioni pubblicitarie cartacee oltre a quelle telefoniche. Tramite contratto di servizio, il MISE ha affidato alla Fondazione Ugo Bordoni la realizzazione, la gestione e la manutenzione del servizio.
Il 21 gennaio 2022 il Consiglio dei ministri ha approvato la riforma che potenzia il Registro pubblico delle opposizioni, introducendo numerose novità sia dal punto di vista delle imprese, sia dal punto di vista dei contraenti.
Prima di tutto, è bene sottolineare che l’ambito di applicazione delle disposizioni in questione è stato allargato anche ad altre forme di marketing, non solo nei confronti delle comunicazioni commerciali effettuate tramite l’attività dei call center. Come previsto dalla legge n. 5/2018, infatti, rientra nell’ambito di applicazione il trattamento per fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale di tutte le numerazioni nazionali fisse e mobili mediante l’impiego del telefono, che siano o meno riportate in elenchi di contraenti, e degli indirizzi postali riportati nei medesimi elenchi.
Dal punto di vista del consumatore, l’iscrizione al Registro consente poi di bloccare non solo le telefonate tramite operatore ma anche le chiamate automatizzate, e cioè effettuate tramite software di composizione automatici, sempre più diffuse tra gli operatori e fino ad oggi sfuggite alla regolamentazione.
Inoltre, i consumatori possono decidere di inserire nel Registro anche le numerazioni di telefono mobile, così da impedire la ricezione di chiamate promozionali anche sui propri cellulari. Tale trattamento, infatti, era in precedenza riservato solamente alle numerazioni telefoniche fisse.
Un’altra novità riguarda la revoca dei consensi precedenti. I consumatori hanno la possibilità di iscrivere nel nuovo RPO le numerazioni telefoniche verso le quali non desiderano ricevere comunicazioni promozionali: ciò comporta l’annullamento di tutti i consensi prestati in precedenza.
Verranno inoltre iscritti automaticamente tutti i numeri che non sono presenti nell’elenco telefonico pubblico.
Dal punto di vista delle imprese che si avvalgono di attività del c.d. marketing diretto, gli operatori sono obbligati a consultare il Registro con scadenza mensile per eliminare dalle iniziative di telemarketing le nuove numerazioni iscritte. Gli operatori che contatteranno una numerazione a scopi promozionali, sebbene questa sia stata inserita dal consumatore all’interno del RPO, incorreranno nella violazione del diritto di opposizione e dovranno rispondere delle sanzioni amministrative applicabili sensi dell’art. 83 del Regolamento generale sulla protezione dei dati (“GDPR”). Queste possono arrivare fino a 20 milioni di euro oppure fino al 4% del fatturato mondiale totale annuo, se superiore.
In conclusione, l’iscrizione al RPO permette di evitare di ricevere comunicazioni commerciali indesiderate provenienti da qualsiasi azienda. Al contrario, qualora il consumatore abbia intenzione di ricevere tale tipologia di comunicazioni da uno specifico operatore, dovrà esprimere il proprio consenso direttamente a quella determinata società. Quest’ultima potrà dunque includere nelle proprie campagne promozionali le numerazioni di quel determinato utente, sempre facendo salve le regole in tema di trattamento di dati personali degli utenti, i quali dovranno essere trattati in linea con il GDPR, il Codice in materia di protezione dei dati personali, le linee guida ed i provvedimenti vincolanti del Garante per la protezione dei dati personali.

Alfredo Bergolo


LA SOTTILE DIFFERENZA TRA MARCHIO HOMAGE E SFRUTTAMENTO ILLECITO: IL TRIBUNALE DELL’UNIONE EUROPEA SPECIFICA I LIMITI DELL CONCETTO DI MALAFEDE

14/07/2022

Con decisione del 6 luglio 2022 (T 250/21), il Tribunale ha annullato la seconda decisione della Commissione di ricorso dell’EUIPO del 10 marzo 2021, affermando che il semplice fatto che il titolare di un marchio abbia adottato un segno precedentemente noto ma attualmente in disuso come marchio di omaggio non è sufficiente a configurare uno stato d’animo disonesto e quindi la malafede.

 

Il 6 maggio 2013, il titolare ha depositato una domanda di registrazione del marchio dell’Unione Europea per il segno


per capi di abbigliamento (classe 25) e per alcuni altri prodotti, quali coperture per letti (classe 24) e borse in pelle e da viaggio (classe 18), per citare alcuni esempi. Il marchio è stato registrato il 31 ottobre 2014.
Negli anni ‘30 “NEHERA” era un marchio molto noto in Cecoslovacchia, utilizzato da un’azienda fondata dal signor Jan Nehera. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il marchio non è stato più utilizzato a seguito della nazionalizzazione e del rebranding dell’azienda.
Il 17 giugno 2019, i nipoti del fondatore, la sig.ra Isabel Nehera, il sig. Jean-Henri Nehera e la sig.ra Natacha Sehnal, hanno depositato una domanda di nullità del marchio in quanto esso sarebbe stato depositato in malafede. Con decisione del 22 aprile 2020, la Divisione di Annullamento dell’EUIPO ha respinto la domanda per mancanza di prove circa la malafede dell’attuale titolare del marchio. Detta decisione è stata impugnata e la seconda Commissione di ricorso dell’EUIPO ha accolto il ricorso presentato dai nipoti del sig. Nehera, dichiarando la nullità del marchio contestato, ritenendo provata la notorietà del segno in Cecoslovacchia negli anni Trenta. Inoltre, per la Commissione il titolare sarebbe stato a conoscenza dell’esistenza e della celebrità sia del sig. Jan Nehera sia del precedente marchio cecoslovacco, che conservava nella memoria del pubblico una certa notorietà. La derivante associazione tra il titolare del marchio e l’ex marchio cecoslovacco costituirebbe un agganciamento scorretto ed uno sfruttamento della notorietà del sig. Jan Nehera e dell’anteriore marchio cecoslovacco.
Anche la decisione resa dalla Commissione è stata oggetto di gravame da parte del titolare del marchio in quanto riteneva non sufficientemente provata la notorietà residua del segno alla data di deposito nel 2013.
Con la decisione in commento, il Tribunale ha confermato l’orientamento consolidato secondo cui il concetto di malafede presuppone la presenza di uno stato d’animo o di un’intenzione disonesta, sottolineando che è considerata malafede l’intenzione di pregiudicare, in modo non conforme alle pratiche leali, gli interessi di terzi, o l’intenzione di ottenere, senza nemmeno rivolgersi a un terzo specifico, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli che rientrano nelle funzioni di un marchio, ed in particolare la funzione essenziale di indicare l’origine del marchio. Tra i fattori esemplificativi che possono essere presi in considerazione vi sono, in primo luogo, il fatto che il richiedente sappia (o debba sapere) che un terzo utilizza un segno simile per un prodotto simile, che può essere confuso con il segno per il quale si chiede la registrazione; in secondo luogo, l’intenzione del richiedente di impedire al terzo di continuare a utilizzare tale segno e, in terzo luogo, il grado di protezione giuridica di cui godono il segno del terzo ed il segno per il quale si chiede la registrazione. Altri fattori rilevanti per una valutazione complessiva possono essere l’origine del segno in questione ed il suo uso, a partire dalla sua creazione, la logica commerciale che ha motivato il deposito della domanda di registrazione e la cronologia degli eventi che hanno portato a tale deposito. Per quanto riguarda il grado di tutela giuridica del segno anteriore, la Corte ha analizzato se, in assenza di valida registrazione e di un attuale uso, fosse possibile dimostrare una “certa notorietà sopravvissuta”, un “valore storico” o la percezione del fondatore del segno come una “celebrità”.
Nel caso di specie, il Tribunale ha escluso la malafede, in quanto nessuno dei suddetti aspetti è stato sufficientemente provato. Inoltre, ha osservato che il richiedente ha dedicato notevoli sforzi economici per far rivivere il marchio dimenticato.
La decisione, pur essendo in linea con la precedente giurisprudenza formatasi in relazione ai tentativi di far rivivere i marchi altrui caduti in obblio, aggiunge almeno due aspetti interessanti:
In primo luogo, per l’analisi della malafede, la questione dell’ottenimento di un vantaggio indebito è di fondamentale importanza: quando il richiedente la registrazione cerca di cavalcare la scia di un segno o di un nome precedentemente rinomato per beneficiare del suo potere di attrazione, della sua reputazione e del suo prestigio e, senza alcun compenso economico e senza dover compiere alcuno sforzo, sfrutti lo sforzo commerciale compiuto dal titolare o dall’utilizzatore quel “vantaggio indebito” appare abbastanza ovvio. In secondo luogo, il ragionamento del Tribunale sembra implicare che una “certa notorietà sopravvissuta”, un “valore storico” o persino la qualifica del fondatore di un segno quale “celebrità” – se sufficientemente provata – potrebbero essere considerati indizi idonei a dimostrare uno stato d’animo disonesto, anche nel caso in cui il segno anteriore non benefici più di alcuna protezione né come marchio registrato né come marchio di fatto.

Avv. Tankred Thiem


LA RESPONSABILITÀ DEI GESTORI DELLE PIATTAFORME E-COMMERCE – LE CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE SUL CASO LOUBOUTIN – AMAZON

16/06/2022

Lo scorso 2 giugno 2022 l’Avvocato Generale Szpunar della Corte di Giustizia UE ha espresso le proprie conclusioni riguardo le cause riunite C-148/ 21 e C-184/21, relative al caso Louboutin/Amazon, esponendo le motivazioni secondo cui il gestore di una piattaforma e-commerce non debba essere ritenuto responsabile per le violazioni dei diritti dei titolari di marchi, compiute sulla propria piattaforma.

 

Entrambe le controversie sorgevano nel 2019, quando lo stilista francese Christian Louboutin invocava, nei confronti del colosso dell’e-commerce Amazon, una lesione dei propri diritti esclusivi vantati sul marchio n. 0874489 registrato nel Benelux, e sul marchio n. 8845539 dell’Unione europea. L’oggetto dei diritti di privativa riguarda la “semelle rouge”, ovvero quel particolare punto di rosso (N. Pantone 18-1663TP) applicato alla suola di calzature di lusso, che dai primi anni ‘90 contraddistingue e rende note in tutto il mondo le collezioni della maison calzaturiera parigina.

In entrambi i procedimenti promossi contro Amazon, Louboutin ha lamentato che tra i vari annunci presenti sulla piattaforma, vi fossero offerte in vendita numerose scarpe con la suola rossa, asserendo che il gestore avesse agito in violazione dei suoi diritti esclusivi, avendo pubblicizzato e commercializzato – senza il suo consenso – prodotti identici a quelli per cui è registrato il suo marchio.

Le corti nazionali adite – del Lussemburgo per la causa C-148/21, e del Belgio per la causa C-184/21 – hanno entrambe rimesso la questione alla Corte di Giustizia tramite rinvio pregiudiziale, allo scopo di chiedere al giudice comunitario di fare luce sulla questione della responsabilità dei gestori di piattaforme di vendita online.

Nello specifico, tramiti i suddetti rinvii, è stato richiesto alla Corte se fosse ipotizzabile imputare una responsabilità diretta in capo ai gestori di piattaforme di e-commerce, relativamente alla pubblicazione di annunci di vendita di prodotti contraffatti, pur se offerti da terzi. In più, nelle domande di rinvio, vi era altresì la richiesta di interpretare la nozione di “uso” del marchio disciplinata ai sensi dell’art. 9, paragrafo 2 del Regolamento europeo n. 2017/1001.

Nell’esporre le proprie conclusioni sul tema, l’AG Szpunar ha fatto espresso riferimento alla funzione ed all’attività compiuta da Amazon nel mondo dell’e-commerce, il quale opera come intermediario su un mercato “ibrido” offrendo ai consumatori prodotti sia propri che per conto di terzi, ed altresì servizi di spedizione e di stoccaggio. A tal proposito, l’AG Szpunar ha sostenuto che la presenza del logo di Amazon, in qualità di distributore negli annunci di vendita di terzi, non costituisca connessione con i prodotti offerti. Di conseguenza, anche le violazioni eventualmente commesse non sarebbero attribuibili al gestore della piattaforma, a condizione che nessun elemento induca l’utente normalmente informato a confondere la provenienza dell’annuncio, ed a percepire il marchio del prodotto come parte integrante della pubblicità offerta dal gestore.

In riferimento all’interpretazione dell’Art. 9 del Regolamento europeo, inoltre, l’AG ha ritenuto che l’attività di comunicazione commerciale, effettuata dall’intermediario digitale e gestore di piattaforme e-commerce, non sia configurabile tra le ipotesi di “uso” di un marchio, e che quindi non sia parimenti ravvisabile la responsabilità dello stesso per eventuali violazioni commesse sulla sua piattaforma.

Dunque, per tali ragioni l’AG ha espressamente concluso che Amazon “non può essere ritenuta direttamente responsabile per le violazioni dei diritti dei proprietari di marchi che avvengono sulla sua piattaforma a seguito di offerte commerciali di terzi”.

Seppur non vincolanti per la decisione che spetterà alla Corte, le conclusioni dell’Avvocato Generale rappresentano un rilevante spunto di riflessione in relazione ai criteri di attribuzione della responsabilità in capo ai gestori delle piattaforme e-commerce, soprattutto in vista – e nell’attesa – dell’entrata in vigore del Digital Service Act, e del Digital Markets Act.

Federica Schiavone