ORIGINE DEL GRANO IN ETICHETTA: ACCESO DIBATTITO SUI DECRETI FIRMATI DA MARTINA E CALENDA

09/11/2017

Il 20 luglio 2017 i Ministri Maurizio Martina e Carlo Calenda hanno firmato due decreti interministeriali per introdurre l’obbligo di indicazione dell’origine del riso e del grano per la pasta in etichetta, la cui entrata in vigore è prevista per febbraio 2018.

 

I provvedimenti in parola (i.e. il decreto “grano/pasta” e il decreto sul riso) prevedono l’obbligo di esplicitare in etichetta l’origine di grano, riso e pasta, per un periodo biennale di sperimentazione.

Le confezioni di pasta secca prodotte in Italia dovranno quindi obbligatoriamente indicare in etichetta sia il paese di coltivazione del grano, sia il paese di molitura. Se queste fasi avvengono nel territorio di più Paesi potranno essere utilizzate, a seconda della provenienza, le seguenti diciture: Paesi UE, Paesi NON UE, Paesi UE E NON UE. Se il grano duro è coltivato almeno per il 50% in un solo Paese, come ad esempio l’Italia, si potrà usare la dicitura: “Italia e altri Paesi UE e/o non UE”.

Per quanto riguarda il decreto sul riso, il provvedimento prevede che sull’etichetta debbano essere indicati il paese di coltivazione del riso, il paese di lavorazione e il paese di confezionamento. Anche per il riso, se queste fasi avvengono nel territorio di più Paesi potranno essere utilizzate, a seconda della provenienza, le seguenti diciture: Paesi UE, Paesi NON UE, Paesi UE E NON UE.

I decreti escludono tuttavia dall’obbligo di indicazione di origine la pasta di grano duro IGP (come quella di Gragnano), quella fresca e senza glutine (di riso, mais, soia, segale, etc.), la pasta biologica, quella di farro, quella di kamut et similia. Tale esclusione è stata oggetto di critiche dal momento che i citati decreti sono stati emanati quali provvedimenti volti ad implementare il Regolamento (UE) n. 1169/2011 che si pone come obiettivo primario quello di rendere effettivo il principio della scelta informata e che, perciò, non contiene alcuna eccezione analoga a quelle che, invece, il decreto grano pasta prevede.

Altre critiche ai decreti sono state espresse da alcuni gruppi di imprenditori agricoli e aziende produttrici di pasta. In particolare Coldiretti ha sostenuto che i produttori di pasta italiani sarebbero enormemente danneggiati se obbligati ad esplicitare che il grano utilizzato non proviene interamente dall’Italia.


CONTRAFFAZIONE DELLA NOTA PLACCA CON FIOCCHETTO DELLA FERRAGAMO

24/10/2017

In una recente pronuncia, il Tribunale di Milano ha ritenuto che la commercializzazione di calzature ad opera di due titolari di esercizi commerciali a Milano costituisce contraffazione dei marchi della Ferragamo riproducenti la nota placchetta metallica con il fiocchetto.

 

In particolare, due signore Sun Feiyan e Wu Xiumei, titolari di due esercizi commerciali a Milano attivi nel commercio al dettaglio di articoli di abbigliamento, calzature e accessori, convenivano in giudizio la società Ferragamo per sentire accertare e dichiarare che la commercializzazione delle scarpe oggetto di contestazione e di diffida da parte della stessa Ferragamo non costituisse contraffazione del marchio di quest’ultima riproducente la placchetta con il fiocco.

La Ferragamo si costituiva in giudizio contestando la fondatezza delle domande avversarie e chiedendo in via riconvenzionale che venisse accertata e dichiarata la responsabilità delle attrici per contraffazione dei suoi marchi comunitari, nonché per concorrenza sleale, con tutte le pronunce consequenziali anche risarcitorie. Ferragamo osservava che ciascun concorrente che produce o commercializza calzature è libero di apporre sui propri prodotti e sulle proprie calzature dei fiocchi di tessuto o di altro materiale e delle placchette metalliche, scelti tra la miriade di tipi esistenti, non pretendendo di avere un monopolio sui fiocchi o sulle placchette metalliche in quanto tali, mentre non è invece consentito che terzi utilizzino segni che possano creare confusione con la placchetta ovale di Ferragamo e che si possano agganciare alla fama della medesima o pregiudicarne il suo carattere distintivo; tanto più se la stessa, come nel caso di specie, è utilizzata insieme ad un fiocco.

Il Tribunale di Milano rilevava in primo luogo che nel settore in cui opera la società convenuta Ferragamo è frequente che le imprese produttrici appongano sui prodotti un proprio simbolo così da renderli subito riconoscibili agli occhi dei consumatori; che detti simboli sono usati con funzione distintiva come il marchio “Vara” di Ferragamo (oggetto di registrazione comunitaria), la cui prima utilizzazione risale addirittura a quasi quarant’anni fa, e precisamente nel 1978, quando Ferragamo lo appose a mo’ di fibbia su un modello di scarpa da donna che da allora in poi fu denominato “Vara” e che riscosse notevole successo.

I Giudici Milanesi ritenevano inoltre non sufficienti ad escludere la contraffazione ai danni dei segni della Ferragamo né i dettagli marginali di differenziazione delle calzature attoree (quali, nella specie possono essere la posizione della placchetta rispetto al fiocco o la scritta diversa impressa sul metallo delle calzature attoree), né il fatto che tali calzature siano vendute ad un prezzo molto inferiore rispetto a quello delle calzature Ferragamo. Ed anzi, in relazione a quest’ultimo punto, veniva chiarito che il bassissimo prezzo e la scarsa qualità delle calzature delle due attrici producevano un ulteriore svilimento e pregiudizio alla rinomanza e notorietà dei marchi della Ferragamo.

Le due attrici Sun Feiyan e Wu Xiumei venivano dunque dichiarate responsabili di contraffazione dei marchi comunitari n. 101931 e n. 551390, di proprietà della Salvatore Ferragamo s.p.a. nonché per atti di concorrenza sleale, e condannate a pagare in favore della nota azienda italiana di moda, a titolo di risarcimento dei danni, la somma di euro 15.000,00 liquidata in via equitativa (non avendo le stesse attrici mai ottemperato all’ordine del Giudice di esibizione delle scritture contabili).

Si precisa che il caso in esame non è stato seguito dallo Studio LGV.


IL PARLAMENTO EUROPEO DISCUTE A PROPOSITO DELLA REGOLAMENTAZIONE DELL’ESPORT IN EUROPA

27/09/2017

Lo scorso 6 settembre 2017 l’Intergruppo Sport del Parlamento Europeo ha tenuto un’audizione pubblica dal titolo “Lo status dell’Esport in Europa: il bisogno di una risposta politica” cui hanno partecipato i soci delle principali aziende attive nel settore dell’Esport nonché i rappresentanti delle associazioni di categoria dei settori industriali coinvolti nell’Esport.

 

L’evento tenutosi presso il Parlamento Europeo ha rappresentato una delle prime occasioni di confronto sul tema della necessità di fornire una regolamentazione a livello comunitario degli Esport, focalizzato da una parte a sviluppare un inquadramento dell’Esport sotto il profilo legale e economico, dall’altra ad individuare le problematiche di carattere politico legate alla disciplina di questo fenomeno in rapida ascesa.

Si parla di Esport – o di Sport Elettronici – quando l’attività di gioco con videogiochi è svolta a livello competitivo, sia amatoriale che professionistico, nell’ambito di competizioni organizzate. I giocatori possono giocare singolarmente o in modalità multiplayer, mentre le sfide possono essere giocate sia dal vivo, da player che sono fisicamente riuniti in un unico luogo, che on line con giocatori che competono contemporaneamente “da remoto”, potenzialmente da tutte le parti del mondo.

La scelta di aprire una discussione sulla disciplina degli Esport nasce dall’esigenza di comprendere in che misura questi sport “virtuali” e i loro giocatori possano essere assimilati a quelli tradizionali e se ed in che misura sia opportuno che la disciplina dedicata alla regolamentazione di quest’ultimi venga applicata anche agli Esport, al momento organizzati sulla base di auto regolamenti interni.

Studio LGV, che da tempo annovera tra i suoi clienti società ed associazioni attive nel settore dei videogiochi, seguirà in qualità di advisor gli sviluppi della discussione sull’Esport che è un tema di crescente importanza sia a livello europeo sia a livello nazionale.


LGV AVVOCATI VINCE IN CASSAZIONE IN TEMA DI CONFONDIBILITA’ DI MARCHI

14/09/2017

Con una recentissima sentenza la Suprema Corte ha escluso la responsabilità di una società assistita dallo studio legale LGV per violazione di marchio, rigettando il ricorso avversario proposto per richiedere l’accertamento della esclusiva titolarità del marchio oggetto di contestazione e la conseguente assegnazione del nome a dominio registrato dal resistente.

 

Con la decisione in esame, la Cassazione ha ribadito che l’apprezzamento sulla confondibilità va compiuto dal giudice di merito accertando, da una parte, l’identità o la confondibilità dei due segni e dall’altra l’identità e la confondibilità tra i prodotti. Tali giudizi, secondo la Suprema Corte, non possono essere considerati tra loro indipendenti ma sono entrambi strumenti che consentono di accertare la cosiddetta “confondibilità tra imprese”. La Corte ha precisato inoltre che l’inclusione di due prodotti nella stessa classe non è idonea a provarne l’affinità così come, al contrario, non può l’affinità essere esclusa per il fatto che due prodotti siano indicati in classi diverse. Ne consegue che il titolare del marchio previamente registrato non può vietare di per sé l’uso del segno distintivo in qualsiasi forma, e quindi anche come domain name, ove non sussista la confondibilità dei prodotti o servizi. Nel caso di specie, è stata esclusa la contraffazione del marchio della società ricorrente in quanto il marchio contestato si riferisce a servizi non affini.

La sentenza, confermando le pronunce rese nei precedenti gradi di giudizio, ha altresì escluso che la resistente abbia commesso atti in violazione delle norme a tutela della concorrenza, dal momento che non si può presumere (neppure nel caso di notorietà del marchio protetto) l’esistenza di un rischio di confusione per il solo fatto dell’esistenza di un rischio di associazione in senso stretto. Per l’accertamento positivo dell’esistenza di un rischio di confusione è necessaria la prova di tale rischio che va verificata anche in via potenziale, avuto riguardo all’insieme dei soggetti che avvertono il medesimo bisogno di mercato e si rivolgono quindi a tutti i prodotti idonei a soddisfare quei bisogni.


LOCAZIONI COMMERCIALI: ILLEGITTIMO IL RECESSO SE IL CONDUTTORE NON HA DATO LA DISDETTA

06/09/2017

In tema di recesso anticipato del conduttore dal contratto di locazione commerciale, laddove i gravi motivi sopravvenuti dedotti dal conduttore si siano verificati prima della scadenza del termine per dare l’utile disdetta alla scadenza naturale del contratto e il conduttore non l’abbia data, tale condotta, interpretata secondo il principio di buona fede, va intesa come rinuncia a far valere in futuro l’incidenza di tali motivi sul sinallagma contrattuale. Si dovrà quindi presumere la non gravità di tali motivi, poiché altrimenti sarebbe stato ragionevole utilizzare il mezzo più rapido per la cessazione del rapporto.

 

La questione prospettata alla Corte verteva sulla possibilità o meno per il conduttore di un immobile ad uso commerciale di addurre, quale grave motivo legittimante il recesso ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 27, un fatto verificatosi anteriormente all’ultimo rinnovo tacito del contratto. Al quesito – che presenta caratteri di novità, in quanto non risulta che una simile questione sia stata finora vagliata dalla Corte di Cassazione – deve darsi risposta negativa.

La Corte ha, per un verso, confermato un proprio consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui i gravi motivi che giustificano il recesso del conduttore dal contratto di locazione devono essere obiettivi, determinati da fatti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto e, per altro verso, introdotto un nuovo principio secondo cui quando i gravi motivi sopravvenuti dedotti dal conduttore si sono verificati prima della scadenza del termine per dare l’utile disdetta alla scadenza naturale del contratto e il conduttore non l’abbia data, tale condotta, interpretata secondo il principio di buona fede, va intesa come rinuncia a far valere in futuro l’incidenza di tali motivi sul sinallagma contrattuale. Di tali motivi si potrà quindi presumere la non gravità, poiché altrimenti sarebbe stato ragionevole utilizzare il mezzo più rapido per la cessazione del rapporto (i.e. la disdetta). A parere della Corte, se le parti lasciano che il contratto si rinnovi, tale rinnovazione implica una tacita valutazione di convenienza alla prosecuzione del rapporto nonostante i fattori sopravvenuti, che dunque non potranno più, in un secondo momento, essere indicati dal conduttore a giustificazione del recesso anticipato.