sentenze

L’APPELLO È INAMMISSIBILE IN MANCANZA DELLA FIRMA DIGITALE SULL’ORIGINALE

04/07/2017

In una sua recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha affermato che la mancanza della sottoscrizione digitale dell’originale dell’atto di citazione in appello determina l’inammissibilità dell’appello stesso per inesistenza dell’impugnazione, non sanabile neppure attraverso la costituzione della parte appellata.

 

Con la sentenza n. 14338 dell’8 giugno 2017, la Sezione Sesta Civile della Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di esprimersi nuovamente su una delle questioni oggetto di maggior disputa degli ultimi anni, ovvero le conseguenze del mancato rispetto delle disposizioni in materia di notificazione in proprio a mezzo PEC eseguite da parte degli avvocati, che a partire dalla legge n. 53/1994 ha subito notevoli evoluzioni, soprattutto dettate dalla necessità di aggiornarsi e rimanere al passo con le innovazioni tecnologiche degli strumenti informatici impiegati.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Salerno aveva ritenuto inammissibile il giudizio d’appello instaurato attraverso la notificazione di un atto di citazione in appello privo della firma digitale, ritenendo il vizio di cui sopra non sanabile neppure attraverso la costituzione in giudizio della parte appellata, che aveva  sollevato la relativa eccezione. La Corte di Cassazione, interpellata con ricorso, ha quindi confermato la decisione della Corte d’Appello di Salerno circa l’inammissibilità non sanabile dell’appello, provvedendo però a riformarla parzialmente. La Corte ha affermato che la presenza della firma digitale sull’atto informatico è pienamente equiparata alla firma apposta “a mano” su di una versione cartacea dell’atto e tale requisito deve essere inteso come condizione di validità dell’atto introduttivo del giudizio ex art. 125 c.p.c., in quanto strumento idoneo a ricondurre l’atto ad un determinato soggetto.

Tuttavia, ciò che rileva secondo la Suprema Corte, non è soltanto la mancanza della firma digitale sulla copia notificata (profilo sul quale si era incentrata l’impugnazione del ricorrente), ma l’assenza della stessa anche sull’originale dell’atto di citazione, circostanza di per sé sola già in grado di determinare l’inammissibilità dell’appello.

La decisione della Suprema Corte si affranca per la prima volta dai precedenti orientamenti “antiformalistici” che miravano a far prevalere il principio del raggiungimento dello scopo sul rispetto delle disposizioni di legge dettate in materia di notificazioni digitali. Questo approccio, che in un primo momento aveva evitato che i giudici venissero investiti da cavillose eccezioni, aveva evidentemente portato all’estremo opposto, ovvero ad una totale mancanza di ritualità, cui la Corte ha qui ritenuto di dover porre rimedio.


IL CASO “THE PIRATE BAY”: PER LA CORTE DI GIUSTIZIA ANCHE I GESTORI DELLA PIATTAFORMA DI CONDIVISIONE DI FILE TORRENT VIOLANO I DIRITTI D’AUTORE

23/06/2017

La Corte di Giustizia, con la sentenza pronunciata il 14 giugno scorso nella causa c-610/15, ha affermato che la messa a disposizione su Internet di contenuti caricati da utenti costituisce una forma di “comunicazione al pubblico”,  attività che deve essere autorizzata dai titolari dei diritti dautore sulle opere.

 

La Stichting Brein, una fondazione dei Paesi Bassi che protegge gli interessi dei titolari del diritto d’autore, ha adito i giudici olandesi per far ingiungere alla Ziggo e alla XS4ALL, fornitori di accesso i cui abbonati utilizzano per la maggior parte la piattaforma di condivisione online “The Pirate Bay”, di bloccare i nomi di dominio e gli indirizzi IP di “The Pirate Bay” al fine di evitare che i servizi di questi fornitori possano essere usati per violare il diritto di autore dei soggetti di cui la Stichting Brein protegge gli interessi.

Le domande di Stichting Brein, accolte in primo grado, sono state tuttavia rigettate in appello.

La Corte Suprema dei Paesi Bassi ha quindi adito la Corte Europea al fine di chiedere se si configuri una comunicazione al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, ad opera del gestore di un sito Internet ove sul sito in parola non si trovino opere protette, ma esista un sistema con il quale vengono indicizzati e categorizzati per gli utenti metadati relativi ad opere protette disponibili sui loro computer, consentendo loro di reperire e caricare e scaricare le opere protette.

Nella recente sentenza la Corte statuisce che la fornitura e la gestione di una piattaforma di condivisione online, quale è “The Pirate Bay”, devono effettivamente essere considerate atti di comunicazione al pubblico ai sensi della direttiva 2001/29 e in quanto tali sono consentite solamente previa autorizzazione dei titolari dei diritti di autore.

La Corte ha anche affermato che gli amministratori di “The Pirate Bay” non realizzano una «mera fornitura» di attrezzature fisiche ma svolgono un ruolo imprescindibile nella messa a disposizione delle opere protette. Essi, di fatto, intervengono con piena cognizione delle conseguenze del proprio comportamento, al fine di dare accesso alle opere, indicizzando ed elencando i “file torrent” che consentono agli utenti di localizzare le opere e di condividerle nell’ambito di una rete tra utenti (peer-to-peer).

Tale comunicazione riguarda peraltro un numero indeterminato di destinatari potenziali e comprende un numero considerevole di persone, come anche dichiarato dagli stessi amministratori di “The Pirate Bay” sul proprio sito internet.

Infine, la Corte ha affermato che è incontestabile che la messa a disposizione e la gestione di una piattaforma di condivisione online, come quella di cui al procedimento principale, sono realizzate allo scopo di trarne profitto, dal momento che la piattaforma in questione genera considerevoli introiti pubblicitari.


I COMPENSI DEGLI AMMINISTRATORI UNICI O DEI CONSIGLIERI DI AMMINISTRAZIONE DI S.P.A. SONO PIGNORABILI SENZA I LIMITI DI CUI ALL’ART. 545 C.P.C.

01/06/2017

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 20 gennaio 2017, n. 1545, hanno stabilito che l’amministratore unico o il consigliere d’amministrazione di una S.p.A. sono legati da un rapporto di tipo societario che – in considerazione dell’immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione – non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.. Ne deriva che i compensi spettanti ai predetti soggetti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dal quarto comma dell’art. 545 c.p.c..

 

A seguito di un’espropriazione presso terzi intentata da una banca contro il suo debitore, in primo grado veniva disposta con sentenza l’assegnazione all’istituto procedente della totale somma accantonata dai terzi a titolo di emolumenti per l’attività. Il debitore era infatti amministratore di una delle società terze pignorate e membro del consiglio di amministrazione dell’altra. Il debitore si opponeva all’ordinanza di assegnazione deducendo che vi era stata una diversa qualificazione della propria attività, secondo lui riconducibile all’ambito di applicazione dell’Articolo 409 numero 3 del Codice di Procedura Civile, e che quindi vi era una limitazione alla pignorabilità (solo fino ad un quinto). Il tribunale accoglieva la sua opposizione, qualificando l’attività lavorativa del debitore come lavoro parasubordinato e dunque limitava ad un quinto l’assegnazione di quanto i terzi pignorati avevano accantonato. La banca creditrice proponeva quindi ricorso per Cassazione.

Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite è consistito nello stabilire se il rapporto tra la società per azioni ed il suo amministratore sia qualificabile come di lavoro parasubordinato od autonomo e, di conseguenza, stabilire se il limite di pignorabilità degli stipendi pari ad un quinto degli stessi previsto dal quarto comma dell’art. 545 c.p.c. sia applicabile ai compensi o agli emolumenti dell’amministratore stesso.

Fino alla decisione de quo, la giurisprudenza – secondo un primo orientamento – escludeva potersi individuare nell’ambito del rapporto di amministrazione un rapporto tra due distinti centri di interesse tra i quali avviene lo scambio di prestazioni, ciò in quanto l’ordinamento delle spa è regolato in modo da attribuire all’amministratore-rappresentante le caratteristiche strutturali di organo, escludendo quindi la configurabilità del rapporto di para-subordinazione e accogliendo la teoria cd. organica. Un diverso filone giurisprudenziale, aderente alla cd. teoria contrattualistica, riconduceva invece le controversie in questione all’art. 409, n. 3 c.p.c., ritenendo che il rapporto tra amministratore e spa presentasse i caratteri della continuità e del coordinamento con l’attività svolta dall’impresa societaria, richiesti da tale norma per affermare la competenza per materia del giudice del lavoro.

Una soluzione al dibattito fu trovata inizialmente dalle S.U. con la sentenza n. 10680 del 1994, la quale prese netta posizione a favore della qualificazione del rapporto di amministrazione in termini di rapporto di lavoro parasubordinato, ai sensi dell’art. 409 n. 3 c.p.c., sulla base del fatto che “all’interno dell’organizzazione societaria sono configurabili rapporti di credito nascenti da un’attività continua, coordinata e prevalente non rilevando l’eventuale mancanza di una posizione di debolezza contrattuale dell’amministratore nei confronti della società”.

Viceversa, con la sentenza in oggetto la Corte a Sezioni Unite, cassando la sentenza impugnata dal creditore procedente e rigettando l’opposizione proposta dal debitore, ha ritenuto errato il principio statuito dal Tribunale in ordine alla limitata pignorabilità dei crediti e statuito che i compensi spettanti agli amministratori per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili nella loro totalità.


CAUSA C-527/15 Stichting Brein v Jack Frederick Wullems: LA CORTE DI GIUSTIZIA TORNA SULLA QUESTIONE DELLA COMUNICAZIONE AL PUBBLICO

10/05/2017

Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea la nozione di “comunicazione al pubblico” di cui all’articolo 3 della direttiva 2001/29 ricomprende la vendita di un lettore multimediale nel quale sono state preinstallate estensioni contenenti collegamenti ipertestuali a siti web liberamente accessibili al pubblico e sui quali sono state messe a disposizione del pubblico opere tutelate dal diritto d’autore senza l’autorizzazione dei titolari di tale diritto. Inoltre, atti di riproduzione temporanea, effettuati per il tramite del lettore multimediale, di un’opera protetta dal diritto d’autore e ottenuta in streaming senza l’autorizzazione del titolare del diritto, non possono ritenersi coperti dall’eccezione di cui all’articolo 5 della medesima direttiva.

 

Il Sig. Wullems vendeva online diversi modelli di un lettore multimediale denominato “filmspeler”. Su tale lettore, il Sig. Wullems aveva installato un software open source che consentiva di aprire file in un’interfaccia facile da utilizzare tramite strutture di menù, e vi aveva integrato, senza modificarle, estensioni (add-ons) disponibili su Internet, concepite da terzi, alcune delle quali rinviavano specificamente a siti web nei quali venivano messe a disposizione degli internauti opere protette senza l’autorizzazione dei titolari del diritto d’autore.

Stichting Brein, una fondazione olandese che tutela gli interessi dei titolari del diritto d’autore, dapprima intimava al Sig. Wullems di cessare la vendita del lettore multimediale e, successivamente, procedeva a citarlo in giudizio dinanzi al Tribunale di Midden-Nederland sostenendo che, attraverso la vendita del lettore multimediale “filmspeler”, il Sig. Wullems avrebbe effettuato una “comunicazione al pubblico” in violazione dell’articolo 3 della direttiva 2001/29. Il Sig. Wullems per contro sosteneva che lo streaming di opere tutelate dal diritto d’autore provenienti da una fonte illegittima rientrava nell’eccezione di cui all’articolo 5, paragrafo 1, della medesima direttiva.

A seguito di rinvio pregiudiziale da parte del Tribunale olandese, la Corte di Giustizia, dopo aver richiamato la propria giurisprudenza sulla nozione di comunicazione al pubblico, stabiliva innanzitutto che nel caso di specie non si poteva parlare di una mera fornitura di un’attrezzatura fisica (i.e. il lettore multimediale) atta a rendere possibile o ad effettuare una comunicazione. Il Sig. Wullems, infatti, procedeva con piena cognizione delle conseguenze della sua condotta alla pre-installazione, nel lettore multimediale “filmspeler” che lui stesso vendeva, di estensioni che consentivano agli acquirenti di accedere a opere tutelate pubblicate su siti di streaming senza l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore e di visualizzare tali opere sulla loro televisione. Poiché siffatta operazione consentiva di accertare il collegamento diretto tra i siti web che diffondevano le opere contraffatte e gli acquirenti di detto lettore multimediale, senza la quale questi ultimi potrebbero soltanto con difficoltà beneficiare delle opere tutelate, una simile attività non coincideva con la mera fornitura di un’attrezzatura fisica, di cui al considerando 27 della direttiva 2001/29.

Ciò premesso, la Corte osservava che la condotta del Sig. Wullems costituiva una “comunicazione al pubblico” in quanto il lettore multimediale “filmspeler” era stato acquistato da un numero considerevole di persone e, invero, la comunicazione riguardava un numero indeterminato di potenziali acquirenti di tale lettore che disponevano di una connessione Internet, sicché si poteva nella specie parlare di comunicazione ad un “pubblico”. Inoltre, riteneva la Corte che tale comunicazione era stata effettuata nei confronti di un “nuovo” pubblico che non era stato preso in considerazione dai titolari del diritto d’autore al momento in cui avevano autorizzato la comunicazione iniziale. Peraltro, nel caso di specie era pacifico che la vendita del lettore multimediale “filmspeler era stata effettuata in piena cognizione della circostanza che le estensioni che contengono collegamenti ipertestuali preinstallati in detto lettore davano accesso a opere illegittimamente pubblicate su Internet. Anzi, nelle pubblicità relative a tale lettore multimediale si faceva specificamente presente che esso consentiva di guardare gratuitamente e con facilità, su uno schermo televisivo, materiale audiovisivo disponibile su Internet senza l’autorizzazione dei titolari del diritto d’autore.

Infine, la Corte di Giustizia ha statuito che atti di riproduzione temporanea, su un lettore multimediale come quello di cui al procedimento principale, di un’opera tutelata dal diritto d’autore, ottenuta via streaming su un sito web appartenente a un terzo che offre tale opera senza l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore, non integravano i requisiti prescritti dalla direttiva 2001/29, di talché non era possibile qualificare la vendita del lettore multimediale come un “utilizzo legittimo” delle opere protette da parte del Sig. Wullems.


CONFERMATO L’ORDINE DI STAY DOWN NEI CONFRONTI DELL’ISP NEUTRALE CHE NON ABBIA RIMOSSO I CONTENUTI ILLECITI CARICATI DAI PROPRI UTENTI.

28/04/2017

Il Tribunale di Torino, con sentenza pubblicata il 7 aprile 2017, ha accolto, quasi in toto, le domande dell’attrice Delta TV Programs s.r.l., accertando la responsabilità degli ISPs Google Inc., Google Ireland Holdings e Youtube LLC per violazione dei diritti di proprietà intellettuale di Delta TV Programs s.r.l. ed in particolare dei diritti di sfruttamento economico vantati dalla stessa su alcune telenovelas caricate sul portale Youtube. Alle convenute è stato quindi ordinato di rimuovere e cancellare tali contenuti audiovisivi dal portale Youtube ed impedirne per il futuro l’ulteriore caricamento, condannando le stesse al pagamento in favore dell’attrice, a titolo di risarcimento danni, della totale somma di Euro 250.000,00.


 

Nel caso in oggetto Delta TV s.r.l., società operante nel settore dell’edizione, produzione, noleggio e distribuzione di programmi audiovisivi e televisivi, è titolare esclusiva dei diritti di sfruttamento economico, compreso il territorio Italiano, di alcune telenovelas di produzione sudamericana. La medesima società è altresì titolare dei diritti sulla versione italiana delle opere audiovisive in questione per aver provveduto al doppiaggio delle opere in lingua originale attraverso mezzi propri. Parte attrice veniva a conoscenza che un certo numero di episodi delle telenovelas predette venivano caricati, nella loro versione italiana, sui siti internet youtube.com e youtube.it per la diretta e gratuita fruizione ad opera di tutti gli utenti internet. Per tale ragione, Delta TV conveniva in giudizio Google e Youtube per vedere accertata la violazione dei suoi diritti d’autore sui programmi in parola.

Le convenute hanno in primo luogo lamentato la mancanza di prova della titolarità in capo all’attrice di tutti i diritti di sfruttamento sulle telenovelas in questione. I Giudici Torinesi hanno respinto tale eccezione preliminare, rilevando che l’attrice ha offerto evidenza documentale attestante la sussistenza di contratti di licenza aventi ad oggetto la concessione dello sfruttamento economico in relazione a quasi tutte le opere audiovisive in parola; in merito alle restanti opere, è stato in ogni caso affermato che poco rileverebbe la mancata prova, atteso che l’attrice agisce per la tutela dei propri diritti di sfruttamento economico della versione italiana delle menzionate telenovelas, la quale, a sua volta, costituisce opera derivata tutelabile autonomamente ai sensi dell’art. 4 della Legge sul diritto d’autore.

Nel merito, Youtube LLC è stato qualificato quale “hosting provider” con conseguente applicazione alla stessa delle norme di cui al D. Lgs. 70/2003, a sua volta attuativo della Direttiva comunitaria 2000/31/CE. Ciò che conferma l’insussistenza in capo a Youtube dell’obbligo di preventivo vaglio dell’effettiva titolarità dei diritti d’autore posseduti da parte dei singoli soggetti che caricano i video, con la sola ipotesi di responsabilità ipotizzabile nei casi in cui detta società venga informata dell’illiceità dei contenuti video caricati. E’ stato inoltre precisato che – affinché sorga l’obbligo di controllo a posteriori in capo al service provider – è necessaria la ricorrenza di una diffida /comunicazione specifica, contenente con esattezza l’URL relativo al caricamento ritenuto illecito.

Quanto al caso in esame, il dovere di controllo e rimozione è sorto in capo alle convenute solo con la notifica dell’atto di citazione contenente le esatte URL incriminate, e non con la generica diffida indirizzata dalla stessa attrice alle società convenute circa 9 mesi prima dell’introduzione del giudizio che non conteneva invece alcun riferimento alle URL contestate.

L’istruttoria tecnica svolta nel corso del processo ha confermato l’obbligo giuridico (e la possibilità da un punto di vista pratico) in capo ai gestori della piattaforma Youtube di attivarsi e di impedire nuovi caricamenti di video già oggetto di segnalazione e rimossi. Al riguardo, si è notato che i video in parola non sono stati rimossi ma solo oscurati ad opera delle convenute e ciò significa che essi erano comunque visibili dall’estero ovvero dallo stesso territorio italiano con accorgimenti di facile approntamento, simulando cioè una connessione dall’estero.

Il Tribunale di Torino ha dunque confermato le responsabilità delle convenute per violazione dell’art. 16 D.lgs n. 70/2003 a far data dall’avvenuta notifica dell’atto di citazione, condannandole al risarcimento dei danni in favore di Delta TV s.r.l.. E’ stato inoltre ordinato alle medesime convenute di cancellare e rimuovere i video contestati ai sensi dell’art. 156 Legge sul Diritto d’autore e di impedirne altresì l’ulteriore caricamento sulla piattaforma Youtube. Le ulteriori misure della penale e pubblicazione sono state invece ritenute sproporzionate nel caso in esame e, per tale ragione, rigettate.