sentenze

LA CASSAZIONE NEGA L’ULTRATTIVITÀ DEL MANDATO ALLE LITI CONFERITO DA UNA SOCIETÀ

18/01/2017

È inammissibile il ricorso per Cassazione proposto dalla società già cancellata dal registro delle imprese in quanto da considerarsi non più esistente e, pertanto, priva di legittimazione e interesse all’impugnazione ma anche del potere di conferire procura speciale alle liti per il giudizio di legittimità.


 

Con la sentenza n. 6780 del 2016 la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso proposto da una società cancellata dal registro delle imprese. Secondo la Corte, infatti, non può trovare applicazione nel giudizio di legittimità il principio di ultrattività del mandato: è necessario infatti che la procura sia rilasciata da una società che non sia “giuridicamente defunta e non legittimata ad agire in giudizio in virtù del disposto di cui all’art. 2495 c.c.”.

La sentenza in commento segue la pronuncia n. 15295 del 2014 della Suprema Corte in cui si affermava il principio di ultrattività del mandato: la parte colpita dagli eventi di cui all’art. 299 c.p.c. (i.e. morte o perdita della capacità di stare in giudizio) e già costituita a mezzo di un difensore, che non abbia dichiarato o notificato l’evento stesso a norma dell’art. 300 c.p.c., continua ad essere da lui rappresentata. La sua posizione giuridica risulta stabilizzata anche per le successive fasi di quiescenza e di impugnazione, salvo che nel corso del gravame gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale di quella, divenuta incapace, si costituiscano in giudizio, oppure nel caso in cui il difensore rilevi l’evento.

Ciò detto, l’orientamento tornato in auge nel 2014 non risulta sconfessato dalla sentenza in rassegna la quale si preoccupa invece di precisare un diverso principio, ossia che non si ha ultrattività del mandato quando si tratti di proposizione di ricorso per Cassazione.

Per la proposizione di tale ricorso il difensore necessita infatti di una procura speciale ai sensi dell’art. 365 c.p.c., che non può essere rilasciata dalla società estinta nella persona del suo rappresentante legale, avendo questi perso ogni potere rappresentativo, proprio per effetto dell’estinzione dell’ente.


NOVITA DALLA CORTE DI CASSAZIONE IN TEMA DI BREVETTABILITA’ DI SOSTANZE INTERMEDIE

10/01/2017

Con una recente decisione che ha posto fine ad una lunga disputa tra la nota casa farmaceutica Bayer e la società italiana Chimica Industriale, la Corte di Cassazione ha negato l’autonoma brevettabilità di una sostanza intermedia, parzialmente annullando il brevetto della casa farmaceutica tedesca. La questione che concerne in prima linea un metodo per ottenere la sostanza chiamata Drospirenone, utilizzata in pillole per il controllo delle nascite, riguarda in particolare due rivendicazioni di un brevetto europeo, nazionalizzato anche in Italia: la prima rivendicazione del brevetto citato riguarda il metodo per ottenere il prodotto finale Drospirenone e prevede, tra l’altro l’utilizzo della sostanza intermedia chiamata IDROX. La seconda rivendicazione invece non riguarda un metodo bensì protegge(va) tale sostanza IDROX quale prodotto.


 

Con decisione del 14 gennaio 2011, il Tribunale di Torino decidendo in prima istanza aveva già escluso la brevettabilità di una sostanza intermedia sottolineando che “non consta la funzionalità e la possibile applicazione industriale del prodotto intermedio in sé ove distaccato e avulso dal procedimento chimico brevettato nel quale si inserisce come composto chimico intermedio.” Il Tribunale era giunto a tale conclusione in quanto soprattutto la descrizione del brevetto non avrebbe evidenziato un’autonoma rilevanza della sostanza intermedia. Essa non risulterebbe avere una funzione autonoma e un’utilità concettualmente separabile dal procedimento di sintesi che conduce alla produzione di Drospirenone.

Con decisione del 24 dicembre 2012 la decisione citata, per quanto riguarda la rivendicazione del prodotto intermedio, è stata confermata anche in sede di appello e con decisione del 2 dicembre 2016 le sentenze precedenti sono state definitivamente confermate dalla Corte di Cassazione. A supporto ed in aggiunta da quanto argomentato dal Tribunale di Torino la Corte di Cassazione osserva: “…secondo i precedenti di questa Corte, non ha senso rivendicare come prodotto un intermedio strumentale esclusivamente ad un determinato procedimento“. In tale caso al prodotto intermedio mancherebbe l’autonoma applicazione industriale, presupposto menzionato nell’art. 49 CPI. Ed, infatti, già con la sentenza n. 11094 del 1990 la Corte aveva osservato che “il procedimento e il prodotto sono autonomamente tutelabili soltanto se ciascuno presenta i proprio requisiti di brevettabilità e poiché nella specie l’intermedio non è concettualmente separabile dal procedimento – il detto intermedio non è autonomamente brevettabile come prodotto, in quanto la sostanza chimica – intermedio, rappresentando un passaggio obbligato del procedimento di sintesi “non è fruibile per il soddisfacimento di un bisogno diverso da quello connesso all’attuazione del procedimento“…. L’intermedio, pertanto, quand’anche descritto e rivendicato come prodotto, resta parte integrante di un’invenzione di procedimento e come tale è tutelabile sempre e soltanto in quanto derivi dal procedimento brevettato.”

Tale principio è stato confermato dalla Cassazione nell’anno 1997: “Osserva la Corte che il cosiddetto intermedio, ovvero la sostanza che rappresenta un presupposto obbligato di un procedimento di sintesi non è, come questa Corte Suprema ha già chiarito dando vita ad una giurisprudenza dalla quale non vi sono ragioni per discostarsi, autonomamente brevettabile quando è fruibile per soddisfare lo stesso bisogno connesso alla attuazione del procedimento medesimo, (cass. n. 11094 del 1990). Sul punto la Corte genovese ha esaurientemente motivato il proprio giudizio quando ha negato che nella specie un tecnico del ramo avrebbe potuto individuare dagli elementi allegati alla domanda la suddetta sostanza quale prodotto industriale.”

Con la recente decisione la Corte indica ora in maniera più esplicita che essa non intende negare “la brevettabilità dell’intermedio in generale” però conferma allo stesso tempo l’approccio della giurisprudenza precedente: “L’intermedio, pertanto, quand’anche descritto e rivendicato come prodotto, resta parte integrante di un’invenzione di procedimento e come tale è tutelabile sempre e soltanto in quanto articolazione del procedimento brevettato. Insomma, secondo i precedenti di questa Corte, non ha senso rivendicare come prodotto un intermedio strumentale esclusivamente ad un determinato procedimento, che, del resto sarebbe come tale carente dell’attitudine ad avere un’autonoma applicazione industriale: a fronte di detta affermazione, la ricorrente ne denuncia l’erroneità ed il carattere anacronistico, ma, in effetti, al di là di detta petizione di principio, non spiega comprensibilmente che cosa vi sarebbe in essa di errato. Sicchè non vi è ragione di non dar seguito nei limiti indicati a detto indirizzo: che, si ripete, non nega la brevettabilità dell’intermedio in generale, ma solo di quell’intermedio privo per così dire di qualunque individualità rispetto al processo in cui si inserisce. La Corte territoriale, in tale contesto, altro non ha fatto se non ritenere che i caratteri di originalità, altezza inventiva ed utilizzabilità industriale di (OMISSIS) coincidessero con quelli del procedimento oggetto di brevetto, per l’appunto incentrato sulla produzione di (OMISSIS) attraverso (OMISSIS): diverso sarebbe stato in altri termini il discorso se l'(OMISSIS) avesse potuto essere impiegato non solo nel processo di produzione del (OMISSIS), ma anche di altri prodotti finali.”

Dall’esame combinato anche delle decisioni precedenti appare evidente che il presupposto ritenuto decisivo è quello dell’applicabilità industriale di cui all’art. 49 CPI. Appare anche evidente che la Corte ha sottolineato la necessità che la rivendicazione oppure la descrizione del brevetto indichi con precisione la “individualità” del prodotto intermedio rispetto al processo di produzione del prodotto finale in cui si inserisce. Considerando che il brevetto europeo in questione è stato concesso dall’EPO, l’importanza e la necessità di considerare già in fase di stesura del testo originale del brevetto anche diversi approcci giurisprudenziali negli Stati Contraenti della CBE appare ancora una volta evidente.


LA CONTRAFFAZIONE DI MARCHI MICROSOFT SU COA (CERTIFICATI DI AUTENTICITA’) VENDUTI SEPARATAMENTE DALL’HARDWARE

20/12/2016

Va inibita, in quanto illecita, la commercializzazione di COA (certificati di autenticità) venduti o acquistati separatamente dal prodotto software a cui si riferiscono, riportanti segni distintivi di titolarità esclusiva di Microsoft senza autorizzazione.


 

Con provvedimento del 1 dicembre 2016 il Tribunale di Napoli (Sezione Specializzata in materia di Impresa), su richiesta di Microsoft Corporation, ha concesso inaudita altera parte, nei confronti di un rivenditore di prodotti informatici di Napoli, un provvedimento di inibitoria dalla produzione, importazione, esportazione, distribuzione, offerta in vendita, commercializzazione e – anche a mezzo pagine web – di prodotti recanti contraffazione dei marchi registrati “Microsoft”, “Windows” e i loghi che ad esso si accompagnano, fissando una penale di € 250,00 per ogni violazione successivamente constatata al presente provvedimento e di € 500,00 per ogni giorno di ritardo nella esecuzione dello stesso, ordinando a parte resistente il ritiro dal commercio di tutti gli esemplari di prodotti contraffatti.

Secondo il Giudice napoletano era stato infatti dimostrato – attraverso la produzione di estratti di pagine web di siti intitolati e/o riferibili alla resistente – che parte resistente producesse e/o commercializzasse ed offrisse prodotti, in particolare COA (certificati di autenticità) che si appongono sui computer su quali sia stato caricato un programma originale Microsoft, che non possono esser venduti o acquistati separatamente dal prodotto software a cui si riferiscono e stickers relativi a programmi Microsoft recanti marchi contraffatti di titolarità di Microsoft, condotta peraltro finalizzata alla duplicazione abusiva di programmi per elaboratore.

All’esito dell’udienza fissata con il provvedimento del 1 dicembre 2016, in data 15 dicembre 2016 il Tribunale di Napoli ha confermato l’inibitoria già concessa disponendo altresì la pubblicazione del provvedimento sul sito internet di parte resistente.


VIOLAZIONE DEL DIRITTO D’AUTORE SULLA BANCA DATI E ILLECITO CONCORRENZIALE. IL TRIBUNALE DI MILANO ESAMINA L’APPLICAZIONE DI FACEBOOK “NEARBY”

09/12/2016

Il Tribunale di Milano, con sentenza non definitiva pubblicata in data 1° agosto 2016, ha accolto le domande dell’attrice Business Competence s.r.l., accertando la responsabilità in solido delle convenute Facebook s.r.l., Facebook Inc. e Facebook Ireland Ltd per violazione del diritto d’autore sulla banca dati elettronica rappresentata dall’applicazione “Faround” di titolarità dell’attrice, nonché per atti di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c. Il Tribunale ha inoltre disposto l’inibitoria – assistita da penale – con riferimento a ogni ulteriore utilizzo dell’applicazione concorrente “Nearby” di Facebook, e la pubblicazione del dispositivo della sentenza, rimettendo la causa in istruttoria per la quantificazione del danno.


 

Nel caso di specie Business Competence s.r.l., società attiva nel settore dei servizi marketing online, aveva elaborato nel 2012 un’applicazione per telefono mobile che selezionava e organizzava i dati presenti sui profili Facebook degli utenti e che consentiva di visualizzare gli esercizi commerciali più vicini, completi dei dati rilevanti e di eventuali offerte e recensioni, denominata “Faround”. L’applicazione veniva registrata nel Facebook App Center, contenente le applicazioni collaudate e approvate da Facebook, e poi inserita nell’App Store di Facebook. Circa due mesi dopo, tuttavia, Facebook annunciava il lancio di “Nearby”, applicazione concorrente a “Faround” e che di quest’ultima clonava la sostanza, secondo la prospettazione attorea, modificandone solo il layout grafico di visualizzazione.

Il Tribunale di Milano – rigettate le eccezioni di carenza di giurisdizione e di legittimazione passiva formulate dalle convenute – ha accertato la responsabilità di Facebook Inc., Facebook Ireland Ltd e Facebook Italia s.r.l. sia per violazione del diritto d’autore sulle banche dati sia per concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, c.c.

Il Collegio ha anzitutto qualificato “Faround” quale banca dati, implementata in forma di programma per elaboratore, avente carattere creativo – come confermato anche dalla CTU disposta nel corso del giudizio – e precisando che il criterio da applicare per la valutazione del gradiente minimo di creatività concerne unicamente la scelta o la disposizione del materiale.

I giudici hanno quindi ritenuto che “Nearby” di Facebook è una elaborazione del programma “Faround” di Business Competence, resa possibile dall’analisi dello stesso programma da parte delle convenute e nello specifico dalla consegna della copia eseguibile di “Faround” ai fini di collaudo. D’altra parte Facebook non avrebbe provato di aver elaborato in modo autonomo e indipendente la propria applicazione, né – nonostante la richiesta del giudice – ha mai prodotto il relativo codice sorgente, così impedendo l’analisi e il confronto dettagliati con l’applicazione concorrente.

Il Tribunale ha infine confermato la responsabilità delle convenute per violazione dell’art. 2598 n. 3 c.c., in quanto si sarebbero appropriate parassitariamente degli investimenti altrui per la creazione di un’opera di rilevante valore economico, peraltro abusando del rapporto di fiducia e affidamento generato dai contatti e dai rapporti instaurati con lo sviluppatore Business Competence e violando gli obblighi di buona fede, affidamento e correttezza.

A questo proposito, il Tribunale ha precisato che in alcun modo Facebook era autorizzata ad analizzare il programma “Faround” per sviluppare un’applicazione simile e destinata alla medesima utenza. E ciò in quanto l’art. 64ter l.a. consente operazioni di analisi unicamente nei limiti in cui siano finalizzate all’uso e alla destinazione tipica del programma, mentre vieta tali attività per scopi commerciali, a pena di nullità della relativa clausola contrattuale. Pertanto, le clausole inserite nel contratto tra le parti, e che consentivano a Facebook di “analizzare le applicazioni, i contenuti e i dati per qualsiasi scopo, anche commerciale”, devono ritenersi nulle.

 


PUBBLICATO SUL QUOTIDIANO “IL CORRIERE DELLA SERA” IL DISPOSITIVO DELL’ORDINANZA CON CUI IL TRIBUNALE DI VENEZIA, RIBADENDO LA NOTORIETA’ DEI MARCHI “ECOLAB”, HA GIUDICATO IL SEGNO “ECOLABIOWORLD” IN CONTRAFFAZIONE CON ESSI.

15/11/2016

Con ordinanza pubblicata il 12 maggio 2016, il Tribunale di Venezia – Sezione specializzata in materia di impresa – si è pronunciato a favore di Ecolab Inc., rigettando in parte il reclamo proposto avverso l’ordinanza del 23 settembre 2015 emessa dal medesimo Tribunale in favore della multinazionale statunitense.


 

L’ordinanza reclamata, resa all’esito di un giudizio cautelare promosso da Ecolab e diretto all’accertamento della contraffazione dei propri marchi da parte del segno “Ecolabioworld”, aveva infatti disposto l’inibitoria all’utilizzo di tale segno all’interno dell’attività di impresa della parte resistente, del nome a dominio www.ecolabioworld.org e della pagina Facebook www.facebook.com/Ecolabioworld. Il Giudice del reclamo ha confermato tale pronuncia sottolineando come il marchio ECOLAB abbia acquisito un elevato livello di notorietà e distintività nel pubblico dei consumatori. Il collegio veneziano ha altresì ribadito la sussistenza di un forte rischio di confusione tra il marchio azionato ECOLAB ed il segno “Ecolabioworld”, atteso che nel confronto tra due segni denominativi il lemma iniziale (ECOLAB, nella fattispecie) condiziona in modo significativo il ricordo del consumatore, essendo le restanti differenze non percepibili dal pubblico come rilevanti. L’aggiunta del lemma “io” e della parola “world” nel segno avverso è stata altresì ritenuta inidonea, sotto un profilo concettuale, a scongiurare il rischio di confusione tra i segni a confronto: sarebbe infatti impensabile, affermano i giudici veneziani, che vedendo il segno “Ecolabioworld” il pubblico di riferimento sia in grado di attribuire allo stesso una peculiare valenza concettuale, tale da distinguerlo dal noto marchio ECOLAB. Interessante, infine, il passaggio dell’ordinanza in cui il Tribunale di Venezia, rigettando l’avversaria domanda di convalidazione del segno “ecolabioworld” ai sensi dell’art. 28 c.p.i., ha ribadito che tale istituto non si applica ai marchi di fatto, presupponendo la valida registrazione del segno posteriore di cui si chiede la convalida.

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