sentenze

CONTRAFFAZIONE DEL NOTO SEGNO BIFORCATO “DIADORA”. IL TRIBUNALE DI TORINO CHIAMATO A DEFINIRE I SINGOLI PROFILI DI RESPONSABILITA’ DEGLI “ATTORI” DELLA VIOLAZIONE.

08/11/2016

Il tribunale di Torino, con ordinanza pubblicata in data 3 agosto 2016, ha accolto la domanda di accertamento della contraffazione svolta dalla società Diadora s.r.l., titolare di diverse registrazioni aventi ad oggetto il marchio figurativo costituito dal noto segno biforcato . I Giudici Torinesi hanno ritenuto responsabili della condotta contraffattiva tutte le resistenti per aver contribuito – seppur in maniera diversa – alla commercializzazione della calzature recanti un segno pressoché uguale a quello “Diadora”. Il Tribunale ha chiarito infatti che costituisce contraffazione qualsiasi contributo – anche solo pubblicitario – all’utilizzo illecito del segno altrui.


 

A fondamento delle proprie domande la società ricorrente Diadora s.r.l., che opera da molti anni nel settore delle calzature e dell’abbigliamento, azionava il marchio figurativo costituito dal segno biforcato oggetto di risalenti registrazioni nazionali, internazionali e comunitarie, di seguito riprodotto   diadora.

In particolare, la ricorrente introduceva il procedimento cautelare documentando che le resistenti Melania Italia s.r.l., Fantasia Calzature e Punto 4 s.r.l. commercializzavano e pubblicizzavano per la vendita sui siti internet, le seguenti calzature a marchio “Melania”, recanti un segno pressocchè uguale al proprio marchio registrato:

scarpe

Il Tribunale di Torino rilevava che il segno apposto dalle resistenti sulle scarpe pubblicizzate per la vendita costituiva contraffazione dei segni della ricorrente, atteso che riproduce interamente tutti gli elementi del marchio Diadora (dimensione e posizionamento sul prodotto comprese) e che l’accorgimento di apporre una stella sulla biforcazione superiore del segno non era sufficiente ad eliminare la capacità evocativa del marchio Diadora e il conseguente rischio di confusione sull’origine e provenienza dei prodotti.

I Giudici Torinesi ritenevano dunque tutte le resistenti responsabili di tale atto contraffattivo, rigettando in tal senso l’eccezione di legittimazione passiva formulata dalla società Melania Italia s.r.l. la quale sosteneva di non intrattenere rapporti commerciali né con la ricorrente né con Fantasia Calzature e Punto 4 s.r.l. e di non essere titolare dei domini www.melania.it e www.fantasiacalzature.it (appartenenti ad altri soggetti) sui quali sono state pubblicizzate le calzature contenenti il fregio con la stella. In particolare, i Giudici Torinesi motivavano il rigetto di tale eccezione preliminare sostenendo che, secondo consolidato giurisprudenziale, costituisce contraffazione qualsiasi contributo causale – anche solo pubblicitario – all’utilizzo illecito del segno altrui.

Nel caso di specie, è documentato che è la stessa ricorrente Melania Italia s.r.l. nella pubblicità e nel commercio a presentarsi come il soggetto che usa il segno oggetto del procedimento. Inoltre, sul sito www.melania.it – dove vengono pubblicizzate e commercializzate le scarpe oggetto di contestazione – compare l’indicazione “Melania Italia srl” e dal retro della scatola di cartone contenente le scarpe acquistate nel negozio Pittarello di Torino viene dichiarato che le stesse sono prodotte e distribuite da Melania Group s.p.a.. Infine, nel corso dell’esecuzione sono emerse fatture emesse da Melania Italia s.r.l. nei confronti di soggetti aventi sede in Paesi europei relative a prodotti contrassegnati con il fregio in contestazione. Da tali elementi emergeva dunque con evidenza il pieno coinvolgimento della resistente Melania nella dedotta contraffazione del segno della ricorrente.


LA CORTE DI GIUSTIZIA SI PRONUNCIA SULLA QUESTIONE DEL COLLEGAMENTO IPERTESTUALE COME FORMA DI “COMUNICAZIONE AL PUBBLICO”

07/11/2016

Con la sentenza dell’8 settembre 2016 la Corte di Giustizia europea ha preso in considerazione la complessa tematica relativa alla qualificabilità di un collegamento ipertestuale inserito all’interno di una pagina web come “comunicazione al pubblico”. In particolare, con la sentenza C-160/15, la Corte ha dichiarato che costituisce “comunicazione al pubblico” la pubblicazione su un sito internet di un link che rimandi ad opere protette, liberamente disponibili su un altro sito internet ma senza l’autorizzazione del titolare del relativo diritto d’autore.


 

Nel caso di specie nell’ottobre 2011 la GS Media – società che gestisce il sito GeenStijl.nl, tra le pagine web di attualità più cliccate dei Paesi Bassi – inseriva all’interno del sito un collegamento ipertestuale che rimandava ad un file elettronico presente sul sito australiano Filefactory.com per l’archiviazione dati. Tale file, accessibile a chiunque cliccasse sul predetto link, conteneva le fotografie realizzate su commissione di Sanoma, editore della rivista Playboy, destinate ad apparire sull’edizione della stessa rivista nel dicembre 2011. Le fotografie venivano quindi rese disponibili al pubblico senza autorizzazione dell’editore, titolare dei diritti d’autore sulle medesime. Sanoma richiedeva in più occasione a GS Media la rimozione dei collegamenti ipertestuali presenti sul sito GeenStijl.

La questione rimessa di fronte alla Corte di Giustizia era già stata parzialmente trattata nel 2014 dalla sentenza Svensson nella quale è stata fornita la definizione di “comunicazione al pubblico” richiamata anche nella decisione in commento. In entrambe le sentenze la Corte afferma che i) viene posto in essere un “atto di comunicazione” quando, in mancanza dell’intervento dell’utente, i clienti dello stesso non potrebbero fruire dell’opera diffusa e che ii) per “pubblico” debba intendersi un numero indeterminato di destinatari potenziali, ricomprendente quindi un numero consistente di persone.

Tuttavia, la causa GS Media è stata risolta in maniera opposta al caso Svensson. In quest’ultimo, infatti, la Corte aveva ritenuto non sussistente alcuna “comunicazione al pubblico” in quanto il link ipertestuale che veniva messo a disposizione degli utenti rimandava ad un sito sul quale il contenuto informatico richiamato era stato pubblicato con il consenso del titolare dei diritti. Il collegamento ipertestuale non poteva essere considerato rilevante per la divulgazione del contenuto del sito cui gli internauti venivano reindirizzati, sulla base della conclusione per cui i titolari del diritto d’autore di tale opera, quando hanno autorizzato la detta comunicazione, hanno considerato l’insieme degli utenti di Internet come pubblico.

Nel caso in esame, invece, la Corte ha dichiarato che la pubblicazione del link costituisce “comunicazione al pubblico” in quanto i) la predisposizione del link da parte del sito olandese ha integrato condizione necessaria per la divulgazione al pubblico che, in difetto della condotta di GS Media, non avrebbero potuto fruire del contenuto e poiché ii) la divulgazione delle immagini è stata eseguita in assenza del consenso del titolare del diritto d’autore sulle fotografie e con la consapevolezza da parte di GS Media dell’assenza del suddetto consenso, oltre che con evidenti finalità di lucro. Tali circostanze hanno portato la Corte a ritenere in questo caso che la comunicazione del link abbia reso le informazioni accessibili ad un pubblico nuovo e diverso da quello cui le fotografie erano state destinate, con la conseguenza di poter propriamente qualificare tale atto come “comunicazione al pubblico”.


TUTELA DEI DATI PERSONALI E INDIRIZZO IP DINAMICO

25/10/2016

I Giudici europei classificano l’indirizzo IP dinamico come dato personale nel caso in cui al gestore del sito internet che abbia registrato l’accesso al proprio sito da parte di un utente siano attribuiti strumenti giuridici per ottenere dal fornitore dei servizi di rete le informazioni aggiuntive necessarie alla completa identificazione di detto utente.


 

La Corte di Giustizia, con la recente decisione del 19 ottobre 2016, si è occupata della questione se un indirizzo di protocollo internet (definito “indirizzo IP”) dinamico possa essere qualificato come dato personale ed essere come tale soggetto alle previsioni di cui alla direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al trattamento dei dati personali delle persone fisiche e alla loro libera circolazione nell’Unione.

Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici europei era riferito a due questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte Federale di Giustizia della Germania (Bundesgerichtshof) nel ricorso presentato dal cittadino tedesco sig. Patrick Breyer avverso la sentenza di appello che aveva parzialmente disatteso le sue argomentazioni. Il caso è sorto a seguito della consultazione da parte del sig. Breyer di vari siti Internet riconducibili a servizi federali tedeschi i quali, per contrastare la pirateria informatica, provvedono a registrare in un file di registro gli accessi effettuati dagli utenti di ciascun sito. I dati relativi agli utenti che vengono memorizzati includono il nome del sito o del file consultato, le parole inserite nei campi di ricerca, la data e l’ora della consultazione, il volume dei dati trasferiti, il messaggio relativo all’esito della consultazione e l’indirizzo IP del PC a partire dal quale è stato effettuato l’accesso.

A seguito dell’accesso, il sig. Breyer proponeva ricorso dinanzi ai giudici amministrativi tedeschi, chiedendo che alla Repubblica federale di Germania fosse inibita la conservazione – anche attraverso soggetti terzi – dell’indirizzo IP dell’utente dei siti internet ad essa riconducibili ed in particolare di quello del sig. Breyer per le attività oggetto di causa. A seguito del rigetto del ricorso in primo grado, il giudice d’appello ha ritenuto che un indirizzo IP dinamico costituisce un dato personale solo se l’utente abbia rivelato la propria identità durante la sessione di consultazione del sito stesso. Solo in quel caso, a detta del giudice dell’impugnazione, l’operatore del sito internet sarebbe in grado di identificare l’utente incrociando il suo nome con l’indirizzo IP del suo computer. La disputa è approdata dinanzi alla Corte Federale tedesca la quale ha rimesso alla Corte di Giustizia europea la questione se un indirizzo IP dinamico registrato da un gestore di un sito internet a seguito della consultazione da parte di un utente costituisce, nei confronti di tale gestore, un dato personale ai sensi della direttiva 95/46/CE qualora solamente un terzo, segnatamente il fornitore di accesso a Internet della suddetta persona, disponga delle informazioni necessarie a identificarla.

La Corte di Giustizia, dopo aver constatato che risulta pacifico che l’indirizzo IP statico consente di individuare in maniera inequivoca e permanente il dispositivo connesso alla rete, ha affermato che il gestore della pagina internet sarebbe in grado di identificare l’utente che accede alla sua pagina attraverso un indirizzo IP dinamico esclusivamente attraverso ulteriori informazioni generalmente fornite da un soggetto terzo (il fornitore di accesso ad internet dell’utente stesso). Per tali ragioni, al fine di qualificare un indirizzo IP dinamico come dato personale e come tale soggetto alla direttiva in questione, a detta della Corte è necessario verificare se la possibilità di combinare un indirizzo IP dinamico con le informazioni aggiuntive detenute dal fornitore di accesso ad internet costituisca un mezzo che può essere ragionevolmente utilizzato dal gestore della pagina internet per identificare la persona interessata. Nel caso di specie la Corte ha precisato che il diritto nazionale tedesco non consente al gestore della pagina internet di ottenere dal fornitore di accesso ad internet, a semplice richiesta, le informazioni aggiuntive in grado di identificare l’utente che utilizza un indirizzo IP dinamico. Sono tuttavia previsti strumenti giuridici che consentono al fornitore di servizi di media online di rivolgersi, nel particolare caso di attacchi cibernetici, all’autorità competente affinché quest’ultima assuma le iniziative necessarie per ottenere tali informazioni dal fornitore di accesso ad internet e per avviare procedimenti penali.

Sulla base di tale circostanza la Corte ha concluso che l’indirizzo IP dinamico registrato da un gestore di una pagina internet in occasione della consultazione da parte di un utente costituisce un dato personale nei confronti di tale gestore se esso disponga dei mezzi giuridici che gli consentano di far identificare la persona interessata attraverso le informazioni aggiuntive in possesso del fornitore di accesso ad internet. Di conseguenza il gestore della pagina internet può raccogliere e impiegare dati personali di un utente, in mancanza del suo consenso, solo nella misura in cui detta raccolta e detto impiego siano necessari per consentire l’effettiva fruizione dei servizi offerti dalla pagina internet da parte dell’utente in questione, senza che l’obiettivo di assicurare il funzionamento generale dei medesimi servizi possa giustificare l’impiego di tali dati dopo una sessione di consultazione degli stessi.


IL SOCIO TITOLARE DI ALMENO UN TERZO DEL CAPITALE DI S.R.L. HA IL POTERE DI CONVOCARE L’ASSEMBLEA

21/10/2016

In tema di società a responsabilità limitata, il potere di convocare l’assemblea, in caso di inerzia dell’organo di gestione, deve riconoscersi, nel silenzio della legge e dell’atto costitutivo, ai soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale. (Corte di Cassazione, sentenza n.  10821/2016)


 

La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha stabilito che, nel silenzio della legge e dell’atto costitutivo, al socio di maggioranza di una S.r.l., titolare di almeno un terzo del capitale, va riconosciuto il potere di convocazione dell’assemblea, in caso di inerzia dell’organo di gestione.

Preliminarmente, va rilevato che il Codice Civile italiano non prevede per le S.r.l. un sistema analogo a quello contemplato dall’articolo 2367 relativo alle S.p.A. in materia di convocazione dell’assemblea su richiesta dei soci.

A norma del suindicato articolo 2367 c.c., infatti: “Gli amministratori o il consiglio di gestione devono convocare senza ritardo l’assemblea, quando ne è fatta domanda da tanti soci che rappresentino almeno il ventesimo del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il decimo del capitale sociale nelle altre o la minore percentuale prevista nello statuto, e nella domanda sono indicati gli argomenti da trattare”.

A parere della Corte l’obiettivo di fondo della riforma del diritto societario del 2003 è stato quello di configurare la S.r.l. come un modello elastico, valorizzando i profili di carattere personale presenti soprattutto nelle piccole e medie imprese, cui tale forma sociale è connaturale; con accentuati margini di disponibilità delle norme che ammettano soluzioni organizzative, proprie di società di persone, per via statutaria. Centrale nella S.r.l. è divenuto, dunque, il ruolo del socio, al quale spettano anche poteri prima riservati in via esclusiva all’amministratore.

In particolare la Corte, con riferimento al caso di specie, ha differenziato in maniera decisa la disciplina delle S.r.l. da quella delle S.p.A., confermando l’inapplicabilità della tecnica del rinvio. L’autonomia e potenziale onnicomprensività della normativa sulla S.r.l. induce ad escludere l’estensione analogica del meccanismo procedurale di convocazione previsto dall’articolo 2367 Codice Civile: estensione, già in linea di principio, dissonante con la rigidità dei diversi tipi societari.

Tale pronuncia va inquadrata all’interno di un costante sforzo degli operatori (che affonda le proprie radici da lungo tempo) teso ad eliminare i pericoli di una paralisi della vita societaria nei casi di inerzia ostruzionistica degli amministratori derivante, da un lato, dall’inapplicabilità in via analogica dell’articolo 2367 c.c. dettato per le società per azioni, attesa la forte differenza tra i due tipi societari, e, dall’altro, dall’inutilizzabilità dell’art. 2487 c.c., in quanto unicamente relativo alla nomina e revoca dei liquidatori (peraltro, tramite il “filtro” del Tribunale).

È evidente quindi che la decisione de quo costituisca un’importante novità nel panorama delle società di capitali ed in particolare delle società a responsabilità limitata la quale ha finalmente e correttamente individuato, nel silenzio della legge e dell’atto costitutivo, un meccanismo alternativo nel riconosciuto potere di convocazione dell’assemblea da parte del socio di maggioranza, titolare di almeno un terzo del capitale, in caso di inerzia dell’organo di gestione.


I PROGRAMMI PER COMPUTER E LA (RI) VENDITA DI COPIE TRAMITE SUPPORTE NON ORIGINALI

14/10/2016

La Corte di Giustizia con la recente decisione del 12 ottobre 2016 si è nuovamente occupata dell’esaurimento del diritto di distribuzione per la vendita di copie usate di programmi per elaboratore. La questione è giunta alla corte europea a seguito della domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte Regionale di Riga, Collegio speciale degli affari penali, Lettonia, nel procedimento penale a carico dei signori Aleksandrs Ranks e Jurijs Vasiļevičs per aver venduto on-line diverse copie di software editi da Microsoft e tutelati dal diritto d’autore.


 

Il giudice del rinvio ha dunque chiesto alla Corte se gli articoli 4, lettere a) e c), e 5, paragrafi 1 e 2, della direttiva 91/250/CEE del Consiglio, debbano essere interpretati nel senso che l’acquirente di una copia “usata” di un programma per elaboratore, registrata su un supporto fisico non originale, possa, in applicazione della regola dell’esaurimento del diritto di distribuzione del titolare del diritto, vendere a terzi tale copia qualora (i) il supporto fisico originale di tale programma, consegnato al primo acquirente, sia stato deteriorato e (ii) quest’ultimo abbia cancellato la copia del software installata sul proprio PC o abbia cessato di utilizzarlo.

La Corte in prima battura ha precisato che è noto il principio per cui il diritto di distribuzione di una copia di un programma per elaboratore si considera esaurito qualora il titolare del diritto abbia (i) autorizzato la prima vendita della copia stessa e (ii), a fronte di un corrispettivo economico, ne abbia conferito il diritto di utilizzo senza limitazioni di durata (come affermato dalla stessa Corte di Giustizia nella nota sentenza UsedSoft./.Oracle del 3 luglio 2012, causa C-128/11).

La citata regola dell’esaurimento del diritto di distribuzione si applica alle copie del software licenziato sia che queste siano registrate su un supporto analogico che siano state scaricate tramite download dal sito internet del titolare del diritto in quanto, sempre secondo la Corte, la direttiva non opera alcuna distinzione tra la forma tangibile o intangibile della copia stessa. Tuttavia il primo acquirente, se intende rivendere la copia del software acquistata, deve renderla inutilizzabile ovvero rimuoverla dal proprio PC.

Il caso in esame concerne proprio la rivendita a terzi da parte dei signori Aleksandrs Ranks e Jurijs Vasiļevičs di copie dei software Microsoft registrate su supporti non originali in quanto, a detta di quest’ultimi, il supporto originale si sarebbe deteriorato o distrutto. Nel procedimento non vi erano evidenze idonee a dimostrare che le copie dei software Microsoft oggetto di rivendita fossero state legittimamente acquisite da parte dei signori Aleksandrs Ranks e Jurijs Vasiļevičs.

A fronte di tali argomentazioni la Corte ha escluso che la copia di riserva di un programma per elaboratore, sebbene legittima ai sensi dell’art. 5, paragrafo 2 della citata direttiva, possa essere oggetto di vendita a terzi senza il consenso del titolare del diritto. Tuttavia la Corte ha precisato che l’acquirente legittimo di una licenza d’uso illimitata di una copia del programma per elaboratore deve essere in grado, qualora il supporto su cui originariamente la copia licenziata è andato distrutto o deteriorato, di scaricare nuovamente la suddetta copia tramite il sito internet del titolare del diritto per il proprio esclusivo uso.

In conclusione la Corte ha chiarito che l’acquirente iniziale di una licenza d’uso illimitata di un software ha il diritto a rivendere a terzi la copia installata sul proprio PC non potendo, tuttavia, questi cedere la copia di riserva di tale software qualora il supporto originale su cui tale copia era stata registrata si sia deteriorato e/o distrutto. In ogni caso è onere di chi invoca l’applicazione del principio dell’esaurimento del diritto di distribuzione dimostrare, con ogni mezzo di prova, di aver legittimamente acquisito una licenza d’uso illimitata della singola copia rivenduta (oltre che di aver reso inutilizzabile/cancellato la copia originariamente installata sul proprio PC).